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Crimini in evoluzione. La diffamazione via Facebook (di Giacomo Ottobre)

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Nuove minacce virtuali

La nascita dei social network ha radicalmente e drasticamente rivoluzionato le abitudini di vita di moltissime persone, tanto da andare a creare una vera e propria realtà parallela, costellata da miriadi di contatti, gestiti e governati, nella maggior parte dei casi, da soggetti privi di scrupolo, senza alcuna moralità e civiltà. Negli ultimi dieci anni la tecnologia, e quindi anche i social network, hanno assunto un ruolo centrale, ridisegnando i rapporti interpersonali.


Nello specifico, uno dei social network che maggiormente è stato messo sotto la lente di ingrandimento è senza dubbio Facebook, piattaforma attraverso la quale l’utente può interagire con terzi soggetti comunicando pensieri, immagini o video, allargando di conseguenza il suo raggio d’azione, creando una sorta di gigantesco megafono con il quale esternare i propri pensieri, opinioni, rancori, simpatie e antipatie, ecc.


In questa “giungla virtuale” ha provato a districarsi il legislatore, il quale, analizzando analiticamente e asetticamente il fenomeno in così larga ascesa, ha ricostruito e rielaborato la fattispecie delittuosa della diffamazione, adattando e applicando il reato previsto dall’art. 595 c.p. anche ai casi in cui esso sia commesso per via telematica o informatica.

Inquadramento normativo

Nel nostro ordinamento il reato di diffamazione, come detto, è disciplinato dall’art. 595 c.p., inserito tra i delitti contro la persona, libro II titolo XII, il quale recita espressamente che chiunque, comunicando con più persone, offenda l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a euro 1.032,00 €.

Proseguendo, al secondo comma, dispone che “se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a euro 2.065,00 €”; mentre, “se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a euro 516,00 €”. Infine, “se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza o ad una autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate”.

Il bene giuridico tutelato

Con riferimento al bene giuridico o interesse protetto dalla norma incriminatrice, il nostro ordinamento individua e delinea chiaramente i limiti entro i quali si rientri nella fattispecie testé richiamata.


In particolare, la libertà di pensiero, così come garantita dall’art. 21 della Costituzione, ha i suoi limiti naturali che sono costituiti dal rispetto altrui e dalla tutela dell’ordine pubblico e del buon costume. Per quanto concerne, invece, il rispetto del diritto altrui la facoltà di manifestazione del proprio pensiero trova un preciso argine nel diritto di ogni cittadino all’integrità dell’onore, del decoro e della reputazione. Nella specie, infatti, la libertà di pensiero trova una difesa più stringente nella legislazione penale, essendo la diffamazione un atto illecito non qualificabile come manifestazione della libertà del pensiero di un soggetto[1].

Il delitto previsto dall’art. 595 c.p. tutela penalmente l’interesse dello Stato alla integrità morale della persona, ossia il bene giuridico è rappresentato dalla reputazione, dalla stima diffusa dell’ambiente sociale, dalla opinione che gli altri hanno di un soggetto. In particolare, la reputazione di un soggetto non risiede in uno stato o in un sentimento individuale, indipendente e distaccato dal mondo esterno, né tanto meno nel semplice amor proprio. Al contrario, invece, la reputazione si può qualificare come il senso della dignità personale nell’opinione degli altri, sentimento circoscritto dall’idea di ciò, per la comune opinione, è socialmente esigibile da tutti in un dato momento storico[2].

Di conseguenza, ai fini dell’integrazione della fattispecie delittuosa è necessario che vengano utilizzati termini che risultino offensivi, lesivi di un soggetto, in base al significato che essi assumono nella comune sensibilità di un essere umano. In altre parole, la condotta lesiva dell’identità personale si sostanzia in una distorsione, alterazione, travisamento od offuscamento del patrimonio intellettuale, politico, religioso, sociale, ideologico o professionale di un individuo.

L’interpretazione dell’articolo 595 c.p. si adegua ai tempi e alle dinamiche e le evoluzioni del web. In modo particolare, la giurisprudenza si è soffermata più volte sulla fattispecie delittuosa in esame, sulla difficoltà di individuare il responsabile, o i responsabili, in caso di contenuti diffamatori che viaggiano in rete.

Il reato di diffamazione è costituito come detto dall’offesa alla reputazione di un soggetto determinato e non può ravvisarsi nella fattispecie in cui vengano pronunciate o frasi offensive scritte nei confronti di una o più persone appartenenti ad una categoria anche limitata, nel caso in cui i soggetti cui le frasi si riferiscono non sono per l’appunto individuabili con certezza[3]. Di conseguenza, quindi, non osta all’applicazione della fattispecie criminosa in esame l’assenza di indicazione nominativa del soggetto cui la reputazione è lesa, le lo stesso sia quanto meno individuabile[4].

La diffamazione on line

Nell’ultimo decennio la maggior parte dalla popolazione in tutto il mondo è solita utilizzare internet, in modo particolare i social network, i quali sono diventati quasi imprescindibili nella quotidianità di ognuno di noi, utilizzando le diverse piattaforme, pagine on line e bacheche per esprimere pensieri, opinioni e ogni genere di espressioni, le quali tendono sempre più a trasformarsi in offese, provocazioni e accuse di ogni sorta, il più delle volte senza una reale comprensione di ciò che invece in realtà si dice.


Facebook, in modo particolare, così come tanti altri social network, è in grado di ridurre i freni inibitori di coloro che lo utilizzano e fa sì che si esprimano concetti che non verrebbero utilizzati nella vita quotidiana, spesso al fine di provocare consensi o ilarità negli altri lettori. Ciò porta innanzitutto a domandarsi se siano davvero più gravi le affermazioni pubblicate[5].

Per quanto concerne i commenti pubblicati sui social network non c’è dubbio sul fatto che ci si trovi in presenza di una fattispecie aggravante. Infatti, la diffusione di messaggio lesivo mediante mezzi che possono raggiungere una quantità di persone potenzialmente rilevante.


In particolare, il reato di diffamazione si configura quando si verificano le tre distinte ipotesi. Nella specie, deve esserci un contenuto offensivo e lesivo dell’immagine e del decoro della persona offesa; l’offesa e/o la comunicazione deve essere rivolta e diretta a più persone; ed infine deve essere assente la persona a cui è diretta, ovvero impossibilità della stessa di percepire l’offesa.

Sul punto, nel corso degli anni, la Suprema Corte ha elaborato una ricca giurisprudenza, abbracciando i moderni social network e quindi anche su Facebook. Oltre a ciò, considerando la quantità di persone che, anche solo potenzialmente, potrebbero visualizzare contenuti offensivi, al reato di diffamazione su Facebook, si aggiunge l’aggravante della diffusione per stampa o altri mezzi di pubblicità, così come disposto al terzo comma dell’art. 595 c.p.

L’uso dei social network, e quindi la diffusione di messaggi veicolati a mezzo internet integra, così come affermato dai giudici di legittimità, di una condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o, comunque, quantitativamente apprezzabile di persone, qualunque sia la modalità informatica di condivisione e di trasmissione. Del resto, la fattispecie incriminatrice dell’art. 595 c.p., co. 3, integrando la diffamazione aggravata attraverso l’uso del mezzo della stampa ovvero disgiuntamente l’uso di ogni altro mezzo di pubblicità, rende evidente come la categoria dei mezzi di pubblicità si più ampia del concetto di stampa, andando ad abbracciare tutti quei sistemi di comunicazione e di diffusione (dal fax ai social media) che, anche grazie alla straordinaria e incontrollata evoluzione della tecnologia, rendono possibile la trasmissione di dati e notizie ad un numero ampio o addirittura indeterminato di persone[6].


Vedi anche: “Insultare l’ex convivente utilizzando la “bacheca” Facebook è diffamazione aggravata

L’aggravante di cui al comma 3 dell’art. 595 c.p.

Come anticipato, la diffusione di un messaggio diffamatorio proprio attraverso l’uso di una bacheca Facebook integra un’ipotesi di diffamazione aggravata. Viene individuata dunque una condotta potenzialmente capace di raggiungere una platea molto vasta di individui, trovando, infatti, la sua ratio nell’idoneità del mezzo utilizzato a coinvolgere e raggiungere un numero apprezzabile di persone, ampliando e aggravando la capacità diffusiva del messaggio lesivo della reputazione della persona offesa: come si verifica ordinariamente attraverso le bacheche dei social network, destinate per comune esperienza ad essere consultate da un numero molto vasto di soggetti, secondo la logica e la funzione propria dello strumento di comunicazione e condivisione telematica, che è quella di incentivare la frequentazione della bacheca da parte degli utenti, allargandone il numero a uno spettro di persone sempre più esteso, attratte dal relativo effetto socializzante[7].

L’aggravante dell’uso di un social network, ossia di un mezzo di pubblicità, nella fattispecie delittuoso dell’art. 595 c.p. si fonda in modo particolare sulla tipologia del mezzo adoperato. L’intenzione del soggetto agente è che le frasi e le parole denigratorie od offensive rivolte ad un soggetto determinato o determinabile siano conosciute da una platea molto vasta di persone.

Come già in precedenza menzionato, la Corte di Cassazione ha espressamente riconosciuto la possibilità che il reato di diffamazione possa essere commesso a mezzo internet, configurando la propagazione tramite Facebook un’ipotesi che integra quale aggravante quella prevista dal terzo comma dell’art. 595 c.p.[8].

Per quanto attiene il contenuto del messaggio, nella sua concreta portata oltre al contesto in cui esso si colloca, è necessario analizzare la sua concreta portata offensiva. Infatti, nel caso in cui il soggetto agente posti un messaggio privo di intrinseca portata offensiva non può rispondere del reato di diffamazione, a nulla rilevando che tale messaggio fosse inserito in una discussione ove altri utenti avevano in precedenza inviato messaggi contenenti espressioni offensive; e anche per l’ipotesi in cui risulti che egli, pur condividendo la critica alla persona offesa, non abbia condiviso le specifiche espressioni utilizzate[9]. Pertanto, ai fini della valenza lesiva del messaggio deve essere inoltre contestualizzato, ossia rapportato al contesto spazio-temporale nel quale è pronunciato, tenuto altresì conto dello standard di sensibilità sociale del tempo e del contesto familiare o professionale nel quale si colloca[10].

I recenti indirizzi giurisprudenziali

Recentemente, la Suprema Corte è intervenuta sulla fattispecie di reato di diffamazione vi Facebook, soffermandosi esplicitamente sula particolarità del mezzo adoperato e della sua non assimilazione alla stampa (Cass. Pen., n. 4873/2017). Differenza rimarcata e ribadita anche nella sentenza n. 12546 del 20 marzo 2019, nella quale si legge che il social network è potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone. Ma, al contempo, il reato non può dirsi posto in essere col mezzo della stampa, non essendo i social network destinati ad un’attività di informazione professionale diretta al pubblico[11].

Sul tema la giurisprudenza è unanime: anche negli ultimi mesi, con la sentenza numero 40083 del 6 settembre 2018, ha ribadito che offendere una persona pubblicando frasi diffamatorie sulla bacheca Facebook è reato.

Conclusioni

Alla luce di quanto testé esaminato, la conclusione alla quale sono giunti i giudici di legittimità, così come la dottrina prevalente, si è giunti ad una riconsiderazione del reato di diffamazione via Facebook, conferendo all’aggravante un valore ancor più incisivo.

Ciò che salta all’attenzione mostra, a parere di una parte della dottrina[12], che le persone abituate ad utilizzare assiduamente il social network abbiano una percezione diversa delle frasi in esso contenute rispetto a coloro che ne sono più restii e ciò le porta a dare minor peso a quanto leggono, per cui le frasi offensive in esso contenute hanno un’incidenza minore. Infatti, l’autore di tali frasi, nella maggior parte dei casi, non coglie appieno il peso del proprio gesto, mentre coloro che leggono tali frasi, tenderanno a darvi un peso minore rispetto a quelle percepite oralmente o scritte su bacheche più autorevoli.
Siffatta problematica dunque diviene enormemente attuale, anche perché, proprio con riguardo a tutte quelle diatribe e liti su Facebook, sono all’ordine del giorno e sembrano destinate a divenire sempre più frequenti. Pertanto, tutto quanto espresso ed affermato dalla Suprema Corte mostra come, per l’interpretazione delle questioni giuridiche che emergono quotidianamente nei Tribunali nazionali, la giurisprudenza e la dottrina siano in costante evoluzione.

Note


[1] Cfr. Cass. Pen., n. 811/1972.
[2] Cfr. Cass. Pen., n. 3247/1995.
[3] Cfr. Cass. Pen., n. 51096/2014.
[4] Cfr. Cass. Pen., n. 7410/2010; conf. Cass. Pen., nn. 6507/1978; 8120/1992.
[5] E. GIACHELLO, La diffamazione su Facebook: un reato generazionale e un dilemma interpretativo, in Giurisprudenza Penale Web, 2018, p. 7.
[6] Cfr. Cass. Pen., n. 8482/2017.
[7] Cfr. Cass. Pen., n. 50/2016.
[8] Cfr. Cass. Pen., nn. 8482/2017; 39763/2017; 4873/2017.
[9] Cfr. Cass. Pen., n. 3981/2015.
[10] Cfr. Cass. Pen., n. 451/2015.
[11] Cfr. Cass. Pen., n. 12546/2019.
[12] E. GIACHELLO, La diffamazione su Facebook: un reato generazionale e un dilemma interpretativo, in Giurisprudenza Penale Web, 2018, p. 11.


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