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Minaccia per gelosia l’amico della moglie su Facebook: giusta la condanna per stalking

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Reati contro la persona

Minaccia per gelosia l’amico della moglie su Facebook: giusta la condanna per stalking

mercoledì 23 novembre 2022

a cura della Redazione Wolters Kluwer

Pronunciandosi su un ricorso proposto avverso la sentenza con cui la Corte d’appello aveva confermato la condanna inflitta in primo grado ad un uomo per il reato di atti persecutori, avendo minacciato reiteratamente per motivi di gelosia un amico della moglie, inviandogli messaggi minatori su Facebook, la Corte di Cassazione penale, Sez. V, con la sentenza 10 novembre 2022, n. 42874 – nel disattendere la tesi difensiva secondo cui mancava la prova del perdurante e grave stato d’ansia e del cambiamento delle abitudini di vita della vittima – ha ribadito il principio secondo cui l’evento di danno può consistere tanto nell’alterazione delle proprie abitudini di vita quanto in un perdurante e grave stato di ansia o di paura, non essendo necessario che tali due effetti si producano congiuntamente.

Cassazione penale, Sez. V, sentenza 10 novembre 2022, n. 42874

ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi Cass. pen. sez. III, 07/03/2014, n. 23485

Cass. pen. sez. V, 09/02/2021, n. 15625

Difformi Non si rinvengono precedenti in termini

Prima di soffermarci sulla pronuncia resa dalla Suprema Corte, deve essere ricordato che l’art. 612-bis, c.p. sotto la rubrica «Atti persecutori», punisce “salvo che il fatto costituisca più grave reato”, con la reclusione da un anno a sei anni e sei mesi la condotta di chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita. La pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici. La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso a danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità di cui all’articolo 3 della L. 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero con armi o da persona travisata. Il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. La remissione della querela può essere soltanto processuale. La querela è comunque irrevocabile se il fatto è stato commesso mediante minacce reiterate nei modi di cui all’articolo 612, secondo comma. Si procede tuttavia d’ufficio se il fatto è commesso nei confronti di un minore o di una persona con disabilità di cui all’articolo 3 della L. 5 febbraio 1992, n. 104, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio.

Per quanto qui di interesse, con la locuzione «perdurante e grave stato di ansia o di paura» la norma sembra riferirsi a forme patologiche di stress o di alterazioni dell’equilibrio psicologico del soggetto passivo, tali da essere riscontrabili già sul piano oggettivo (Bricchetti, Pistorelli, Entra nel codice la molestia reiterata, 59; Pistorelli, Il reato di “stalking”, 4).

Più di recente, si è ribadito che gli atti persecutori non devono essere tali da integrare una situazione con risvolti patologici, essendo sufficiente che producano un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima (Cass. pen. sez. V, 04/02/2020, n. 4728; Cass. pen. sez. V, 14/04/2017, n. 18646. In senso analogo, Cass. pen. sez. V, 21/11/2011, n. 42953; Cass. pen. sez. V, 02/05/2011, n. 16864; Cass. pen. sez. V, 07/03/2011, n. 8832; Cass. pen. sez. V, 26/03/2010, n. 11945). L’accertamento di uno stato patologico, dunque, può assumere rilevanza solo nell’ipotesi di contestazione del concorso formale con l’ulteriore delitto di lesioni (Cass. pen. sez. VI, 18/06/2012, n. 24135).

Ancora con riferimento al grave e perdurante stato di ansia o di paura, si è stabilito che la prova dell’evento de quo deve essere ancorata ad elementi sintomatici del turbamento psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti successivi alla condotta posta in essere dall’agente ed anche da quest’ultima, tenendo in considerazione sia la sua astratta idoneità a causare l’evento, sia il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata (Cass. pen. sez. V, 18/07/2019, n. 31981; Cass. pen. sez. V, 23/05/2019, n. 22843; Cass. pen. sez. V, 07/04/2017, n. 17795; Cass. pen. sez. V, 16/03/2017, n. 12799; Cass. pen. sez. V, 17/06/2016, n. 25405; Cass. pen. sez. V, 08/02/2016, n. 5011; Cass. pen. sez. VI, 03/12/2014, n. 50746; Cass. pen. sez. V, 03/10/2014, n. 41182; Cass. pen. sez. VI, 14/05/2014, n. 20038; Cass. pen. sez. V, 16/04/2012, n. 14391). Non vanno quindi trascurati segni ed indizi comportamentali, desumibili dal confronto tra la situazione pregressa e quella conseguente alla condotta dell’agente (Cass. pen. sez. V, 06/07/2015, n. 28703).

Inoltre, come anticipato, la reiterata condotta minacciosa o molesta dello stalker può produrre l’alterazione delle abitudini di vita della vittima, cioè il mutamento delle sue azioni quotidiane (eliminato il riferimento alle “scelte” di vita del soggetto passivo, contenuto nell’originario D.D.L. C-1440). Seconda la giurisprudenza, affinché possa dirsi integrata l’alterazione delle abitudini di vita, non è sufficiente la percezione di transitori fastidi o disagi nelle occupazioni di vita della persona offesa; occorre, infatti, una costrizione apprezzabile, sotto il profilo qualitativo, delle abitudini quotidiane (Cass. pen., Sez. V, 14/1/2021, n. 1541). L’alterazione delle abitudini di vita può anche essere transitoria, ma non occasionale (Cass. pen. sez. V, 06/05/2021, n. 17552).

Interessante osservare che, di recente, in giurisprudenza, sono state prese in considerazione, ai fini della configurabilità dell’evento in esame, anche le condotte calunniose tenute dall’imputato in danno dei prossimi congiunti della persona offesa e di pubblici ufficiali richiamati in relazione alle indagini circa fatti falsamente rappresentati nei relativi esposti: tali comportamenti, infatti, pur integrando autonomi reati concorrenti con il delitto di atti persecutori, sono stati valorizzati «per i correlati profili di molestia, sconvolgimento emotivo e timore che alla persona offesa ne derivavano per i propri congiunti» (Cass. pen. sez. VI, 01/03/2021, n. 8050).

E procedendo sulla stessa scia, si è pure affermato che integrano il delitto di cui all’artt. 612-bis le condotte di reiterate molestie, anche qualora non rivolte direttamente alla persona offesa, realizzate dall’agente sostituendosi alla vittima tramite profili social e account internet alla stessa direttamente riconducibili, per mezzo dei quali l’agente faccia credere a soggetti terzi del tutto sconosciuti che la vittima sia disponibile ad approcci sessuali, facendo sì che costoro la avvicinino nei luoghi da lei frequentati, al fine di realizzare aspettative di natura sessuale; e ciò laddove l’agente agisca nella consapevolezza della idoneità del proprio comportamento a realizzare uno degli eventi alternativamente richiesti dalla fattispecie incriminatrice qui oggetto di attenzione (Cass. pen. sez. V, 10/01/2022, n. 323).

La prova del nesso causale tra la condotta minatoria o molesta e l’insorgenza degli eventi di danno deve essere concreta e specifica, dovendosi tener conto del comportamento posto in essere dalla vittima e dei mutamenti che sono derivati a quest’ultima nelle abitudini e negli stili di vita (Cass. pen. sez. III, 18/11/2013, n. 46179). Sempre con specifico riguardo al cambiamento delle abitudini di vita, si è precisato che bisogna considerare il significato e le conseguenze emotive della costrizione sulle abitudini di vita cui la vittima sente di essere costretta e non la valutazione, puramente quantitativa, delle variazioni apportate (Cass. pen. sez. V, 06/03/2018, n. 10111; Cass. pen. sez. V, 09/06/2014, n. 24021).

Tanto premesso, nel caso in esame, la Corte d’appello aveva confermato il provvedimento con cui il Tribunale aveva affermato la penale responsabilità di un uomo per il reato di cui agli artt. 612-bis, comma 1, c.p., “perché, per motivi di gelosia nei confronti della coniuge, con condotte reiterate molestava e minacciava un conoscente della moglie, inviandogli, tramite social network Facebook, numerosi messaggi di testo dal contenuto minatorio e offensivo, in modo da ingenerare un fondato timore per la propria incolumità, tenuto conto che l’amico era stato già vittima di un’aggressione fisica da parte dell’imputato.

Ricorrendo in Cassazione, l’imputato sosteneva l’erroneità della condanna inflittagli, con specifico riferimento alla insussistenza degli eventi di danno, nonché la mancata indicazione di elementi di prova circa la sussistenza del perdurante e grave stato d’ansia e il cambiamento delle abitudini di vita della vittima, dolendosi infine della mancata derubricazione del fatto nella fattispecie di minacce o molestia.

La Cassazione, nel disattendere la tesi difensiva, ha affermato il principio di cui sopra. In particolare, ha osservato la S.C. come il ristretto arco temporale in cui i messaggi erano stati inviati era caratterizzato da una tale intensità di condotte (oltre ottanta messaggi) che, anche alla luce delle precedenti condotte (lesioni e minacce aggravate), risultava giustificata la conclusione sull’esistenza di un fondato timore della vittima per la propria incolumità. D’altra parte, ha ribadito la Cassazione, in tema di atti persecutori, la prova dell’evento del delitto, in riferimento alla causazione nella persona offesa di un grave e perdurante stato di ansia o di paura, deve essere ancorata a elementi sintomatici di tale turbamento psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente ed anche da quest’ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l’evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata (Cass. pen. sez. V, n. 17795 del 02/03/2017, S., CED Cass. 269621 – 01).

Incongruente è stato poi ritenuto il rilievo difensivo relativo alla non intervenuta modifica delle abitudini di vita da parte della vittima, in quanto, secondo la giurisprudenza di legittimità, nel delitto di atti persecutori, l’evento di danno può consistere tanto nell’alterazione delle proprie abitudini di vita quanto in un perdurante e grave stato di ansia o di paura, non essendo necessario che tali due effetti si producano congiuntamente («il delitto di atti persecutori è reato abituale, a struttura causale e non di mera condotta, che si caratterizza per la produzione di un evento di “danno” consistente nell’alterazione delle proprie abitudini di vita o in un perdurante e grave stato di ansia o di paura, ovvero, alternativamente, di un evento di “pericolo”, consistente nel fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva: Cass. pen. sez. III, n. 23485 del 07/03/2014, U., CED Cass. 260083 – 01; v. inoltre, Cass. pen. sez. V, n. 15625 del 09/02/2021, R., CED Cass. 281029 – 01: «si configura il delitto di cui all’art. 612-bis c.p. solo qualora le condotte molestatrici siano idonee a cagionare nella vittima un perdurante e grave stato di ansia ovvero l’alterazione delle proprie abitudini di vita»).

Infine, la S.C. ha disatteso la prospettazione difensiva fondata sulla possibile riqualificazione giuridica del fatto nel reato di minaccia o di molestia.

Sul punto, la S.C. ha ricordato come la differenza tra il reato di atti persecutori e quello di cui all’art. 660 c.p. consiste nel diverso atteggiarsi delle conseguenze della condotta che, in entrambi i casi, può estrinsecarsi in varie forme di molestie, sicché si configura il delitto di cui all’art. 612-bis c.p. qualora le condotte molestatrici siano idonee a cagionare nella vittima un perdurante e grave stato di ansia ovvero l’alterazione delle proprie abitudini di vita, mentre sussiste il reato di cui all’art. 660 c.p. ove le molestie si limitino ad infastidire la vittima del reato (Cass. pen. sez. V, n. 15625/2021, cit.).

Da qui, pertanto, l’inammissibilità del ricorso.

Riferimenti normativi:

Art. 612-bis c.p.

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