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Inutilizzabilità degli esiti probatori di perquisizioni illegittime: ancora un no dalla Corte Costituzionale

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Inutilizzabilità degli esiti probatori di perquisizioni illegittime: ancora un “no” dalla Corte costituzionale

lunedì 12 dicembre 2022

di Corbetta Stefano Consigliere della Corte Suprema di Cassazione

La Corte costituzionale, sentenza 9 dicembre 2023, n. 247, respinge una serie di questioni che miravano a introdurre l’inutilizzabilità degli atti di perquisizione ed ispezione compiuti dalla polizia giudiziaria fuori dei casi tassativamente previsti dalla legge o comunque non convalidati dall’autorità giudiziaria con provvedimento motivato.

Corte costituzionale, sentenza 9 dicembre 2023, n. 247

Il caso

Con tre ordinanze di tenore per larga parte analogo, il Tribunale ordinario di Lecce, sollevava questioni di legittimità costituzionale di tre distinte disposizioni del codice di procedura penale.

Il giudice a quo censura, in primo luogo, l’art. 191 c.p.p., nella parte in cui – secondo l’interpretazione predominante nella giurisprudenza di legittimità, assunta quale diritto vivente – non prevede l’inutilizzabilità degli esiti probatori delle perquisizioni e delle ispezioni, domiciliari e personali, compiute dalla polizia giudiziaria fuori dei casi previsti dalla legge, compresi, fra tali esiti, il sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato e la possibilità di deporre sui predetti atti e sui loro risultati.

Il rimettente lamenta, altresì, che l’inutilizzabilità non colpisca anche gli esiti probatori delle perquisizioni e delle ispezioni operate dalla polizia giudiziaria, fuori del caso di flagranza di reato, in forza di segnalazioni anonime o confidenziali e su tali basi autorizzate o convalidate dal pubblico ministero, ovvero convalidate dal pubblico ministero senza indicare gli elementi utilizzabili che le legittimavano, o non convalidate dal pubblico ministero per qualsiasi ragione.

Ad avviso del giudice a quo, la norma censurata violerebbe anzitutto gli artt. 13 e 14 Cost., in forza dei quali l’autorità di pubblica sicurezza può procedere a ispezioni e a perquisizioni, personali e domiciliari, solo in casi eccezionali di necessità e urgenza indicati tassativamente dalla legge, mediante atti soggetti a convalida da parte dell’autorità giudiziaria (da intendere come convalida motivata), in mancanza della quale essi restano privi di ogni efficacia: perdita di efficacia che implicherebbe necessariamente l’inutilizzabilità dei loro risultati sul piano probatorio, anche perché solo in questo modo si tutelerebbero efficacemente i diritti fondamentali alla libertà personale e domiciliare, disincentivando la loro violazione ad opera della polizia giudiziaria per finalità di ricerca della prova.

Risulterebbe, altresì, violato l’art. 3 Cost., sotto un triplice profilo: in primo luogo, per l’ingiustificata disparità di trattamento delle ipotesi in questione, rispetto alla fattispecie disciplinata dall’art. 103, comma 7, c.p.p., che prevede l’inutilizzabilità dei «risultati» delle ispezioni e delle perquisizioni eseguite negli uffici dei difensori in violazione delle disposizioni dei commi precedenti dello stesso articolo; in secondo luogo, per l’ingiustificata disparità di trattamento rispetto all’ipotesi regolata dall’art. 271 c.p.p., che prevede l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni illegittime, benché queste ultime incidano su un diritto costituzionale – la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione – di minor rilievo rispetto alla libertà personale e domiciliare; in terzo luogo, per contrasto con il principio di ragionevolezza, venendosi a teorizzare un sistema che considera efficaci, anche sotto il profilo probatorio, gli atti di polizia giudiziaria compiuti in violazione dei diritti costituzionali del cittadino.

Sarebbe vulnerato anche l’art. 2 Cost., non risultando predisposte effettive garanzie contro le illecite compromissioni dei diritti inviolabili dell’uomo, potendo le forze di polizia contare sulla potenziale «fruttuosità processuale» di qualsiasi atto di perquisizione vadano a compiere, legale o illegale che sia; così come apparirebbero violati gli artt. 3 e 97, comma 2, Cost., venendo resa prevalente l’azione illegale degli organi statali, finalizzata alla repressione dei reati, rispetto ai diritti inviolabili dei consociati.

Il rimettente deduce, ancora, la violazione del diritto a un giusto processo, garantito dagli artt. 111 e 117 Cost., in relazione all’art. 6 CEDU, il quale esige che l’imputato possa verificare la genuinità degli elementi di prova addotti contro di lui: possibilità inficiata dal diritto vivente formatosi sull’art. 191 c.p.p., particolarmente quando la polizia giudiziaria abbia posto, a base della perquisizione o dell’ispezione, elementi non verificabili, quali le notizie apprese tramite fonti confidenziali o denunce anonime. Di qui anche la compromissione del diritto di difesa (art. 24 Cost.).

Viene prospettata, infine, la violazione dell’art. 117 Cost., in relazione all’art. 8 CEDU, giacché verrebbero a mancare efficaci disincentivi agli abusi delle forze di polizia che implichino indebite interferenze nella vita privata della persona o nel suo domicilio.

Altre due ordinanze censurano l’art. 352 c.p.p., nella parte in cui non prevede che il decreto di convalida della perquisizione eseguita d’iniziativa dalla polizia giudiziaria debba essere motivato, deducendo la violazione degli artt. 2, 13, 14 e 111, comma 6, Cost. Essa deriverebbe dal fatto che nel disegno costituzionale la convalida esige un controllo effettivo dell’autorità giudiziaria sulla sussistenza dei presupposti legittimanti la perquisizione, onde la ratio della garanzia costituzionale rimarrebbe frustrata se ad evitare la perdita di efficacia dell’atto illegale bastasse un provvedimento privo di motivazione.

Le medesime ordinanze dubitano ulteriormente, in riferimento agli stessi parametri, della legittimità costituzionale dell’art. 125, comma 3, c.p.p., nella parte in cui non prevede che la nullità (per difetto di motivazione) del decreto di convalida della perquisizione sia assoluta e rientri tra quelle considerate dall’art. 179, comma 2, c.p.p. Secondo il rimettente, una nullità solo relativa, rilevabile esclusivamente su eccezione di parte nel rispetto di «tempi e cadenze» tali da richiedere all’interessato una «notevole diligenza», non garantirebbe adeguatamente i diritti fondamentali incisi.

Una terza ordinanza censura invece l’art. 352 c.p.p. nella parte in cui non prevede che, nel caso in cui il pubblico ministero non convalidi la perquisizione nei termini di legge, tutti i risultati probatori della stessa divengano inutilizzabili, «anche in termini di “inutilizzabilità derivata”».

A parere del giudice a quo, la norma censurata si porrebbe in contrasto con gli artt. 2, 13 e 14 Cost., giacché ammettere che la polizia giudiziaria possa procedere a perquisizione fuori dei casi previsti dalla legge, sulla base di elementi vaghi e perciò non verificabili dall’autorità giudiziaria, con conseguente mancata convalida dell’atto, senza però che ne sortiscano effetti sui risultati della perquisizione, comporterebbe l’aggiramento delle cautele che la Costituzione ha previsto a garanzia dell’effettività del controllo sull’operato delle forze di polizia.

La decisione della Corte

La Corte, in primo luogo, ha rilevato che lo stesso remittente aveva in precedenza sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 191 c.p.p. con nove precedenti ordinanze di rimessione, questioni dichiarate inammissibili (sentenza Corte cost. n. 219/2019) e manifestamente inammissibili (sentenza Corte cost. n. 252/2020 e ordinanza Corte cost. n. 116/2022).

In quelle pronunce, la Corte aveva rilevato che le questioni miravano a trasferire nella disciplina dell’inutilizzabilità delle prove un regime di invalidità “derivata” che il sistema prevede, in via generale, solo in rapporto alla figura, ben distinta, della nullità (art. 185, comma 1, c.p.p.); in sostanza, si richiedeva alla Corte una pronuncia fortemente “manipolativa” in una materia – quella processuale – rimessa alla discrezionalità del legislatore e con caratteristiche di eccezionalità, quale quella dei divieti probatori e delle clausole di inutilizzabilità processuale.

Ciò posto, la Corte ha osservato che il giudice a quo è tornato nuovamente a censurare l’art. 191 c.p.p.; il che non è consentito in quanto una simile iniziativa si porrebbe in contrasto con il disposto dell’ultimo comma dell’art. 137 Cost., secondo cui contro le decisioni della Corte costituzionale non è ammessa alcuna impugnazione.

Il rimettente può rivolgersi nuovamente alla Corte, dopo la declaratoria di non fondatezza, solo ove proponga una questione diversa dalla precedente in rapporto agli elementi che la identificano: ossia norme censurate, profili di incostituzionalità dedotti e argomentazioni svolte a sostegno della ritenuta incostituzionalità (sentenza Corte cost. n. 66/2019, che richiama le sentenze Corte cost. n. 113/2011 e Corte cost. n. 225/1994; ordinanza Corte cost. n. 183/2014).

Di contro, il giudice a quo è abilitato a sollevare una seconda volta la medesima questione nello stesso giudizio quando questa Corte abbia emesso una pronuncia a carattere non decisorio, fondata su motivi rimovibili dal rimettente, dato che, in tal caso, la riproposizione non collide con la previsione dell’art. 137, ultimo comma, Cost., purché ovviamente, che il giudice a quo abbia rimosso il vizio che aveva impedito l’esame di merito della questione.

Nel caso di specie, la Corte ha dichiarato le questioni inammissibili perché la pronuncia sulle precedenti questioni sollevate dal Tribunale salentino negli stessi giudizi riveste carattere incontestabilmente decisorio e le questioni concernenti l’art. 191 c.p.p. risultano identiche alle precedenti sotto ogni aspetto.

Le questioni relative all’art. 191 c.p.p. non precluse sono state parimenti dichiarate inammissibili per la medesima ragione sostanziale già posta in evidenza nelle precedenti pronunce.

Quanto all’asserita violazione dell’art. 3 Cost. per irragionevole disparità di trattamento rispetto alla fattispecie regolata dall’art. 103 c.p.p., la Corte, nel ricollegarsi alla sentenza Corte cost. n. 219/2019, ha rilevato ”proprio in ragione delle peculiarità “funzionali” che caratterizzano il sistema delle inutilizzabilità e dei connessi divieti probatori, in ragione dei valori che mirano a preservare, esista una gamma ‘differenziata’ di regole di esclusione, alle quali corrisponde un altrettanto differenziato livello di lesione dei beni che quelle regole intendono tutelare: il tutto, come è ovvio, in funzione di scelte di ‘politica processuale’ che soltanto il legislatore è abilitato, nei limiti della ragionevolezza, ad esercitare’.

Queste conclusioni valgono anche con riferimento alla fattispecie disciplinata dall’art. 103 c.p.p.; rispetto ad essa, ha chiarito la Corte, “è di immediata evidenza la ragione che ha indotto il legislatore a dettare regole più severe quanto all’inutilizzabilità dei risultati probatori ottenuti contra legem, connettendosi al fatto che le ispezioni e le perquisizioni eseguite presso gli uffici dei difensori incidono non soltanto sull’inviolabilità del domicilio, ma anche sull’inviolabilità del diritto di difesa: diritto che (..) si erge a «principio supremo» dell’ordinamento costituzionale (sentenze Corte cost. n. 18/2022, Corte cost. n. 238/2014 e Corte cost. n. 232/1989).

Per la medesima regione, sono state dichiarate inammissibili anche le questioni, dell’art. 352 c.p.p., nella parte in cui non prevede che, ove il pubblico ministero non convalidi la perquisizione nei termini di legge, tutti i risultati probatori della stessa divengano inutilizzabili; anche in tal caso, il giudice a quo viene a chiedere di nuovo, per altra via, quello che questa Corte ha già riscontrato di non poter fare: ossia introdurre una figura di inutilizzabilità “derivata”.

Le questioni dell’art. 352 c.p.p., nella parte in cui non prevede che il decreto del pubblico ministero che convalida la perquisizione debba essere motivato, sono state dichiarate infondate.

La Corte ha evidenziato come nella sentenza Corte cost. n. 252/2020 – nell’accogliere una distinta questione di legittimità costituzionale sollevata dal medesimo giudice rimettente, avente ad oggetto l’art. 103 del D.P.R. n. 309/1990 – ha affermato che la convalida della perquisizione deve essere motivata, sia per un’esigenza di rispetto degli artt. 13 e 14 Cost., sia per ragioni di coerenza sistematica, in quanto l’esigenza della motivazione anche della convalida “deve ritenersi implicita nel dettato costituzionale, rimanendo altrimenti frustrata la ratio della garanzia apprestata dall’art. 13 Cost. Non avrebbe senso, in effetti, che la norma costituzionale richieda l’“atto motivato” quando l’autorità giudiziaria, titolare ordinaria del potere, operi di sua iniziativa, e non pure nell’ipotesi – più delicata – in cui sia chiamata a verificare se la polizia giudiziaria abbia agito nell’ambito dei casi eccezionali di necessità e urgenza nei quali la legge le consente di intervenire” (sentenza Corte cost. n. 252/2020).

La Corte, infine, ha ritenuto infondate le questioni dell’art. 125, comma 3, c.p.p., nella parte in cui non prevede che la nullità del decreto di convalida della perquisizione per difetto di motivazione sia di natura assoluta.

La Corte ha osservato che l’argomentazione, sostenuta del rimettente, secondo cui la sanzione di nullità relativa non tuteli adeguatamente i diritti incisi dalla perquisizione illegittima “sarebbe sostenibile solo qualora si dimostrasse che i termini per la proposizione delle eccezioni di nullità, previsti in via generale dall’art. 181 c.p.p., rendono impossibile o eccessivamente difficoltoso l’esercizio del diritto di difesa: conclusione alla quale neppure il rimettente perviene, limitandosi a parlare della necessità di una «notevole diligenza» da parte dell’interessato”.

Invero, poiché, di regola, la perquisizione interviene nella fase delle indagini preliminari, la parte interessata è posta in grado di eccepire l’eventuale nullità della convalida, potendolo fare fino alla chiusura della discussione nell’udienza preliminare o, se questa manchi, nella fase degli atti introduttivi del dibattimento, entro il termine previsto dall’art. 491, comma 1, c.p.p. (art. 181, comma 2, c.p.p.).

Esito del ricorso:

Dichiarazione di incostituzionalità parziale

Riferimenti normativi:

Art. 451, co. 5 c.p.p.

Art. 451, co. 6 c.p.p.

Art. 558, co. 7 c.p.p.

Art. 558, co. 8 c.p.p.

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