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La qualifica di avvocato non è sufficiente per imporgli una misura cautelare

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Misure cautelari

Misure interdittive

La qualifica di avvocato non è sufficiente per imporgli una misura cautelare

venerdì 20 gennaio 2023

di Scarcella Alessio Consigliere della Corte Suprema di Cassazione
Secondo la Cassazione, sentenza 12 gennaio 2023, n. 870, in tema di misure cautelari, la misura dell’interdizione temporanea dall’esercizio della professione forense, se può costituire la precondizione che consente di commettere reati, non è tuttavia un elemento da solo sufficiente, in assenza di ulteriori indicatori di un attuale pericolo di ricaduta nel crimine, per imporre la misura cautelare, trattandosi, in sé, di un’attività pienamente lecita che può essere sì strumentalizzata, ma che può esplicitarsi anche con modalità legittime laddove non emerga aliunde il rischio di ulteriori comportamenti penalmente rilevanti.

Cassazione penale, Sez. V, sentenza 12 gennaio 2023, n. 870

ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi Non si rinvengono precedenti in termini
Difformi Non si rinvengono precedenti in termini

La Corte di Cassazione si sofferma, con la sentenza in commento, su una questione di rilievo in materia di misure cautelari interdittive, in particolare concernente l’adozione della misura dell’interdizione temporanea dall’esercizio della professione forense, collegata alla commissione di reati di truffa e falso da parte di un avvocato. Sul punto i Supremi Giudici, in una fattispecie nella quale un avvocato era stato sottoposto ad indagine per i reati di truffa e falso, ha disatteso la tesi del Pubblico Ministero che aveva impugnato l’ordinanza del tribunale del riesame di annullamento dell’ordinanza applicativa, sostenendo, per quanto qui di interesse, che il tribunale del riesame non aveva esaminato la rilevanza della professione forense quanto alla possibilità di consentire la reiterazione del reato, trascurando di valorizzare in malam partem la mole di documenti non firmati ritrovati presso lo studio e concernenti procedure esecutive, inoltre trascurando che l’indagato, insieme alla moglie, anch’ella avvocato, avevano incrementato il proprio giro di affari grazie alle falsificazioni.

Il fatto

La vicenda processuale segue all’ordinanza con cui il tribunale del riesame aveva annullato il provvedimento emesso dal Giudice per le indagini preliminari con il quale era stata applicata ad un indagato, di professione avvocato, la misura cautelare dell’interdizione temporanea dall’esercizio della professione forense.

Il Giudice per le indagini preliminari aveva riconosciuto la gravità indiziaria in relazione a due addebiti di falso in atto pubblico di fede privilegiata e ad un fatto di truffa ai danni dell’Agenzia delle Entrate-riscossione e tale giudizio era stato validato dal Tribunale del riesame, che aveva però ritenuto la non attualità delle esigenze cautelari. Il quadro indiziario posto a base del provvedimento cautelare concerneva reati commessi in concorso con la moglie, anch’ella avvocato; si trattava della falsificazione di un’ordinanza di assegnazione somme da parte del Giudice dell’esecuzione resa nei confronti dell’Agenzia delle Entrate – Direzione provinciale (debitore esecutato), alterata per quanto riguarda l’importo, indicato in una cifra inferiore allo scopo di far risultare esistente un ulteriore credito da azionare, con conseguente proliferare di spese di giudizio, condotta, quest’ultima, ritenuta integrare il reato di truffa. Ancora, i due erano stati riconosciuti gravemente indiziati di un ulteriore falso per avere sostituito ad un’altra ordinanza di assegnazione un provvedimento, uguale negli importi, da loro formato.

Il ricorso

Contro la ordinanza proponeva ricorso per Cassazione il Pubblico Ministero, dolendosi del fatto che il Tribunale del riesame non aveva esaminato la rilevanza della professione forense quanto alla possibilità di consentire la reiterazione del reato, trascurando di valorizzare in malam partem la mole di documenti non firmati ritrovati presso lo studio e concernenti procedure esecutive. Il Tribunale della cautela — aveva concluso il PM— aveva inoltre trascurato che i due avvocati avevano incrementato il proprio giro di affari grazie alle falsificazioni.

La decisione della Cassazione

La Cassazione, come anticipato, ha disatteso la tesi del PM.

In particolare, la S.C. ha osservato come, con riferimento in particolare, alla pretesa rilevanza in malam partem della professione svolta, tale dato, se effettivamente aveva costituito la precondizione che aveva consentito all’indagato di commettere i reati che gli venivano contestati, non è tuttavia un elemento da solo sufficiente, in assenza di ulteriori indicatori di un attuale pericolo di ricaduta nel crimine, per imporre la misura cautelare. Trattasi, in sé, di un’attività pienamente lecita che era stata sì strumentalizzata nella specie all’epoca della commissione dei fatti, ma che può esplicitarsi anche con modalità legittime laddove non emerga aliunde il rischio, ad oggi, di ulteriori comportamenti penalmente rilevanti.

La decisione merita di essere condivisa.

Ed infatti, l’art. 290, c.p.p., sotto la rubrica «Divieto temporaneo di esercitare determinate attività professionali o imprenditoriali», stabilisce che “1. Con il provvedimento che dispone il divieto di esercitare determinate professioni, imprese o uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese, il giudice interdice temporaneamente all’imputato, in tutto o in parte, le attività a essi inerenti.

  1. Qualora si proceda per un delitto contro l’incolumità pubblica o contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio ovvero per alcuno dei delitti previsti dalle disposizioni penali in materia di società e di consorzi o dagli articoli 353, 355, 373, 380 e 381 del Codice penale, la misura può essere disposta anche al di fuori dei limiti di pena previsti dall’articolo 287 comma 1”.

Con la misura prevista dalla norma de qua, il giudice interdice temporaneamente l’imputato, in tutto o in parte, di esercitare una determinata attività professionale o imprenditoriale. Condizione necessaria per l’applicazione è che l’esercizio di tale professione abbia in qualche modo agevolato o comunque reso possibile od agevolato la commissione del reato. Ciò non significa, però, che la mera circostanza di “essere” un libero professionista (o di rivestire un ruolo imprenditoriale), debba ex se essere letta negativamente in quanto idonea a concretizzare un “pericolo” di commissione del reato. Come per qualsiasi misura cautelare, infatti, è necessario che alla “veste” si accompagni anche la protrazione della condotta illecita idonea a giustificare un provvedimento finalizzato ad interromperla.

Del resto, la stessa giurisprudenza, con particolare riferimento ai casi di reati contro la P.A., ha chiarito da tempo che il giudizio di prognosi sfavorevole sulla pericolosità sociale dell’incolpato non è di per sé impedito dalla circostanza che l’indagato abbia dismesso la carica o esaurito l’ufficio nell’esercizio del quale aveva realizzato la condotta addebitata. Tuttavia, la validità di tale principio deve essere rapportata al caso concreto, là dove il rischio di ulteriori condotte illecite del tipo di quella contestata deve essere reso probabile da una permanente posizione soggettiva dell’agente che gli consenta di continuare a mantenere, pur nell’ambito di funzioni o incarichi pubblici diversi, condotte antigiuridiche aventi lo stesso rilievo ed offensive della stessa categoria di beni e valori di appartenenza del reato commesso (Cass. pen. sez. VI, n. 19052 del 02/05/2013, CED Cass. 256223).

Riferimenti normativi:

Art. 290, c.p.p.

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