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La Cassazione sul rito in absentia nel caso “Regeni”

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Procedura penale

Procedimento in absentia

La Cassazione sul rito in absentia nel caso “Regeni”

venerdì 24 febbraio 2023

di La Rocca Elvira Nadia Avvocato in Roma e Professore associato di diritto processuale penale all’Università Roma La Sapienza
Con la sentenza del 9 febbraio 2023, n. 5675 la I Sezione della Corte di Cassazione penale è intervenuta sulla legittimità del rito in absentia e sulle condizioni per ritenere valida la vocatio in iudicium da parte del giudice, tenuto a valutare la regolare conoscenza del processo da parte dell’imputato, pur dinnanzi alla peculiarità di casi – come quello deciso – in cui le ricerche dell’imputato all’estero sono rimesse alle autorità straniere e alla loro fattiva collaborazione nel dar seguito alle richieste italiane.

Cassazione penale, Sez. I, sentenza 9 febbraio 2023, n. 5675

La vicenda e l’iter procedurale

La decisione della I Sezione della Corte di legittimità costituisce l’esito di un travagliato iter procedurale, svoltosi tra tentativi di rintracciare gli imputati per celebrare il processo, assecondare soluzioni tese a valorizzare indici presuntivi di conoscenza e individuare vie di fuga dall’impasse generato dalla scarsa collaborazione delle autorità egiziane nel dar seguito alle richieste italiane di soddisfare le esigenze di conoscenza del processo da parte dei prevenuti.

Malgrado la mancata presenza in aula degli imputati, il GUP di Roma, verificata la regolarità delle notifiche eseguite ai sensi dell’art. 159 c.p.p., disponeva -con ordinanza ex art. 420-bis c.p.p. – procedersi in assenza degli imputati, dichiarati irreperibili. A ragione della dichiarazione di assenza, il Giudice, in particolare, riteneva che fosse desumibile con assoluta certezza da specifiche illustrate evidenze che gli imputati, agenti della National Securiy egiziana, avessero acquisito piena consapevolezza dell’esistenza del procedimento a loro carico. Ed infatti, a seguito di rogatoria attiva, gli stessi erano stati sentiti dalla magistratura egiziana, la notizia della pendenza del procedimento aveva una copertura mediatica internazionale e gli indagati erano stati più volte invitati ad eleggere domicilio in Italia.

La Corte di assise di Roma, competente per il giudizio, dichiarava la nullità della declaratoria di assenza e conseguentemente anche quella del decreto che dispone il giudizio, ordinando la restituzione degli atti al GUP, stante il quadro normativo interno e sovranazionale sul processo in absentia, come delineatosi negli approdi della giurisprudenza costituzionale, di legittimità e della Corte Europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

A sostegno della declaratoria di nullità, il giudice sottolineava il soddisfacimento dell’esigenza, per procedere in assenza, della certezza dell’effettiva conoscenza da parte degli imputati della vocatio in iudicium sulle specifiche imputazioni, e il particolare rigore da riservarsi nel valutare la procedibilità in assenza per garantire un processo giusto a ogni imputato; d’altronde, fuori dalle ipotesi di cui agli artt. 420-bis e 420-ter c.p.p., la sola forma utile, ai fini di una conoscenza effettiva del processo e del corretto instaurarsi del rapporto processuale, è costituita dalla notifica a mani proprie, come previsto dall’art. 420-quater c.p.p.; e l’unica ipotesi per procedere in absentia, senza che l’imputato riceva la notifica a mani proprie, è costituita dalla volontaria sottrazione “alla conoscenza del procedimento o di atti del procedimento”, tratta da condotte positive da accertare in fatto. E nel caso di specie, gli indici fattuali valorizzati per trarre la conoscenza effettiva da parte degli imputati non potevano dirsi idonei a dar prova della stessa, trattandosi di indici presuntivi dai quali al più poteva inferirsi solo una generica conoscenza dell’esistenza di un procedimento penale, ma non della vocatio in iudicium e del processo. La carenza dei presupposti per incardinare il rito comportava un insanabile pregiudizio per i diritti di difesa degli imputati, ai sensi degli artt. 24 e 111 Cost. e 6 Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e dava luogo alla nullità per violazione del contraddittorio di carattere assoluto, ai sensi dell’art. 179 c.p.p., dell’udienza preliminare e dell’emesso decreto che dispone il giudizio, rimanendo assorbita ogni altra eccezione difensiva in ordine alla eccepita nullità delle notificazioni.

Nel corso della nuova udienza preliminare, il GUP, in esito alla disposta restituzione degli atti, disponeva la notifica personale agli imputati dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare e della richiesta di rinvio a giudizio del Pubblico ministero, ritenuta passaggio imprescindibile per evitare la sospensione del processo, oltre che le nuove ricerche ex art. 420-quater c.p.p., senza avere esito positivo.

Ritenuta integrata la fattispecie prevista dall’ art. 420-quater, comma 2, c.p.p., per il perdurante stato di irreperibilità degli imputati, in quanto non era stato possibile rintracciarli per procedere alla notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare, il giudice disponeva la sospensione del processo.

Il Procuratore della Repubblica competente proponeva ricorso per cassazione avverso l’indicata ordinanza di sospensione, deducendo con unico articolato motivo, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p., inosservanza e/o erronea applicazione dell’art. 420-bis c.p.p. e nullità dell’ordinanza di sospensione del procedimento perché atto abnorme determinante la stasi del procedimento e l’impossibilità di proseguirlo, oltre che una gravissima lesione al diritto alla celebrazione del processo a carico degli imputati delle costituende parti civili, familiari della persona offesa e Presidenza del Consiglio dei ministri, dovendo l’atto qualificarsi come fonte di un pregiudizio altrimenti insanabile per le situazioni soggettive delle parti.

Le soluzioni della Corte di Cassazione su impugnabilità, abnormità e garanzie partecipative

Investita del ricorso, la I Sezione della Corte nomofilattica ha analizzato la questione relativa all’impugnabilità con ricorso per cassazione della ordinanza di sospensione del processo per mancata conoscenza dello stesso da parte dell’imputato; provvedimento – questo – non suscettibile di autonoma e tipica impugnazione.

L’asserita abnormità, invero, ha costituito nel caso di specie, l’escamotage per giustificare la scelta processuale del pubblico ministero ricorrente, confortata probabilmente dalle caratteristiche della categoria in questione, non tipizzata normativamente né forse ancora tipizzabile dinnanzi alle innumerevoli variabili che, proprio a causa della mancata definizione normativa, possono ricondurvisi per sanzionare anomalie così gravi da porsi al di fuori del sistema organico della legge processuale.

Mantenuta nell’ordinamento per l’esigenza di legittimare il ricorso immediato per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., derogando alla regola della tassatività dei mezzi d’impugnazione, l’abnormità è idonea, invero, a rimuovere gli effetti, non altrimenti eliminabili, di atti processuali affetti da anomalie così radicali o singolari tali da determinare, sul piano funzionale, la stasi del processo e l’impossibilità di proseguirlo.

Malgrado gli sforzi ricostruttivi ed ermeneutici del PM ricorrente, la Corte di legittimità ha sgombrato subito il campo, ritenendo l’ordinanza impugnata, di converso, immune da qualsivoglia anomalia ed in particolar modo da quelle che perimetrano la sopra delineata categoria dell’abnormità e insuscettibile di determinare una irreversibile stasi del procedimento.

La sospensione, a dire della Corte, mentre non è ingiustificata, perché motivata in relazione alla rilevata sussistenza delle condizioni che normativamente la determinano, non è neppure sine die alla luce delle cadenze procedimentali previste dal codice di rito proprio in vista di una sua possibile revoca. E sebbene già da simile affermazione, nella sua idoneità a comportare la inammissibilità del ricorso, perché presentato avverso un atto non suscettibile di impugnazione, i giudici nomofilattici non si sono risparmiati nei chiarimenti sui requisiti e le condizioni che legittimano il processo in assenza, anche alla luce delle più recenti riforme.

Nei casi in cui “la notificazione ai sensi del comma 1 dell’art. 420-quater c.p.p., nella formulazione previgente alla riforma del 2022, non risulta possibile (…), il giudice dispone con ordinanza la sospensione del processo nei confronti dell’imputato assente (…)”, richiedendosi la certezza della conoscenza della chiamata in giudizio, in netta discontinuità rispetto al processo in contumacia che valorizzava soprattutto la regolarità formale delle notifiche e prevedeva lo svolgimento comunque del processo salva la rimessione in termini, ex art. 175, comma 2, c.p.p., con onere della prova della “non conoscenza” a carico dell’imputato, per l’esercizio del solo diritto d’impugnazione.

Le più recenti riforme, finalizzate a rendere conforme il rito in absentia con il sistema di tutela integrato dei diritti garantiti a livello costituzionale e convenzionale, anche alla luce degli orientamenti più recenti delle Sezioni Unite, che hanno ispirato le innovazioni legislative (Cass., Sez. Un., n. 23948 del 28/11/2019, I., Rv. 279420), valorizzano un sistema di conoscenza effettivo del processo da parte dell’imputato, che consente al giudice di valorizzare elementi di fatto da accertare nel concreto, senza ricorrere a presunzioni di conoscenza o ad automatismi.

È pur vero che, sotto la sua vigenza, l’art. 420-bis valorizza, quale unica ipotesi in cui possa procedersi pur se la parte ignori la vocatio in ius, la “volontaria sottrazione alla conoscenza del procedimento o di atti del procedimento”.

Hanno a tale riguardo sottolineato le Sezioni unite richiamate, che “evidentemente, si deve trattare di condotte positive, rispetto alle quali si rende necessario un accertamento in fatto, anche quanto al coefficiente psicologico della condotta”, senza che la disposizione indicata “tipizzi” o consenta di tipizzare alcuna condotta particolare; sicché “non possono farsi rientrare automaticamente in tale ambito le situazioni comuni quali la irreperibilità, il domicilio eletto etc. Certamente la manifesta mancanza di diligenza informativa, la indicazione di un domicilio falso, pur se apparentemente valido ed altro, possono essere circostanze valutabili nei casi concreti, ma non possono essere di per sé determinanti, su di un piano solo astratto, per potere affermare la ricorrenza della “volontaria sottrazione”. Ciò perché “se si esasperasse il concetto di “mancata diligenza” sino a trasformarla automaticamente in una conclamata volontà di evitare la conoscenza degli atti, ritenendola sufficiente per fare a meno della prova della consapevolezza della vocatio in ius per procedere in assenza, si farebbe una mera operazione di cambio di nome e si tornerebbe alle vecchie presunzioni. Il che ovviamente è un’operazione non consentita, poiché non coerente neppure con lo spirito riformatore, volto al superamento del sistema di presunzioni legali e a impedire “situazioni che, in termini di automaticità, possano rappresentare casi di “volontaria sottrazione” alla conoscenza del processo”.

Riferimenti normativi:

Art. 420-bis c.p.p.

Art. 420-quater c.p.p.

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