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Nessuna incompatibilità per il GUP che non condivida la qualificazione giuridica del fatto

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Penale

Processo penale

Nessuna incompatibilità per il GUP che non condivida la qualificazione giuridica del fatto

lunedì 27 febbraio 2023

di Corbetta Stefano Consigliere della Corte Suprema di Cassazione
Con l’ordinanza 23 febbraio 2023, n. 28, la Corte costituzionale ha dichiarato la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 429, comma 2-bis, e 458 c.p.p., e dell’art. 34 c.p.p., per contrasto con i principi della terzietà e imparzialità del giudice.

Corte costituzionale, ordinanza 23 febbraio 2023 n. 28
Il caso

Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bologna sollevava questioni di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 429, comma 2-bis, e 458 c.p.p., e dunque della disciplina che lo individua quale giudice competente per il giudizio abbreviato a carico dell’imputato, ritenendo che essa confligga con i principi della terzietà e imparzialità del giudice, di cui agli artt. 111, secondo e sesto comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, CEDU, nonché con il principio di soggezione del giudice soltanto alla legge di cui all’art. 101, secondo comma, Cost. nella parte in cui consente che a celebrare il giudizio abbreviato sia un giudice che, per limiti funzionali, non può ritenersi “terzo e imparziale” e in quanto “non soggetto soltanto alla legge”.

Sotto altro profilo, lo stesso rimettente sollevava questione di legittimità costituzionale dell’art. 34 c.p.p., per contrasto con il medesimo principio di terzietà e imparzialità del giudice, nella parte in cui non prevede l’incompatibilità a partecipare al giudizio abbreviato del giudice individuato a norma della disposizione di cui all’art. 458 c.p.p., che per le limitazioni derivanti dall’art. 438, comma 1-bis c.p.p. e per l’impossibilità di fare applicazione dell’art. 521 c.p.p., non può essere considerato “terzo e imparziale”.

In sostanza, il giudice a quo – investito del giudizio abbreviato a carico di un imputato rinviato a giudizio, in esito all’udienza preliminare, per il delitto di omicidio stradale – si duole di non potere diversamente qualificare il fatto rispetto alla configurazione ad esso attribuita dal GUP nel decreto che dispone il giudizio, e in particolare di non poter riqualificarlo nel delitto di omicidio volontario, stante l’affermata vincolatività della statuizione del GUP sul punto.

Secondo il rimettente, nel giudizio abbreviato richiesto dall’imputato ai sensi del combinato disposto degli artt. 429, comma 2-bis, e 458 c.p.p. non sarebbe applicabile l’art. 521, comma 2, c.p.p., dal momento che la regressione degli atti alla fase delle indagini preliminari comporterebbe una mera reiterazione di scansioni processuali già svolte, con conseguente rischio che si verifichi una stasi processuale insuperabile.

Tale situazione determinerebbe, pertanto, la violazione del principio di terzietà e imparzialità del giudice, nonché del principio di soggezione del giudice soltanto alla legge.

La decisione della Corte

In via preliminare, la Corte ha dato atto che l’art. 429, comma 2-bis, c.p.p. è stato abrogato dall’art. 98, comma 1, lett. a), D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, entrato in vigore il 30 dicembre 2022; come chiarito dalla relazione illustrativa al decreto legislativo, tale abrogazione è correlata all’introduzione del nuovo comma 1-bis dell’art. 423 c.p.p., che prevede il potere del GUP di invitare il pubblico ministero a operare le necessarie modificazioni dell’originaria imputazione alla luce delle risultanze dell’udienza preliminare, dovendo poi lo stesso GUP restituire gli atti al pubblico ministero ove quest’ultimo non vi provveda: ciò che esclude, per il futuro, la possibilità che il GUP possa disporre direttamente il giudizio sulla base di un’imputazione diversa da quella originariamente formulata dal pubblico ministero.

La Corte non ha tuttavia ritenuto necessario restituire gli atti al giudice a quo perché valuti la persistente rilevanza e la non manifesta infondatezza delle questioni alla luce dello ius superveniens, dal momento che – in forza del principio generale tempus regit actum, vigente in materia processuale – il giudizio a quo è già stato incardinato avanti al rimettente in base alla disposizione censurata, che era in vigore al momento di emissione del decreto del GUP che ha disposto il giudizio, sicché la modifica normativa intervenuta non può spiegare alcun effetto nel giudizio medesimo.

Ciò chiarito, le questioni sono state dichiarate manifestamente inammissibili, per un duplice ordine di ragioni.

In primo luogo, la Corte ha censurato l’oscurità del risultato preso di mira dal rimettente, in conseguenza dell’auspicata dichiarazione di illegittimità costituzionale delle disposizioni oggetto del dubbio di legittimità costituzionale.

Il giudice a quo, infatti, non illustra in alcun modo quale altro giudice, non soggetto al vincolo derivante dalla decisione del precedente GUP cristallizzata nel decreto che dispone il giudizio (e naturalmente diverso dal GUP che ha disposto il rinvio a giudizio dell’imputato, il quale sarebbe certamente incompatibile ai sensi dell’art. 34, comma 2, c.p.p.), dovrebbe essere competente a giudicare in suo luogo.

Oltre a ciò, la Corte ha evidenziato che il rimettente neppure aspiri a una pronuncia che gli consenta di sottrarsi al preteso vincolo alla propria potestas iudicandi determinato dal decreto che dispone il giudizio, e di giudicare così egli stesso della responsabilità dell’imputato qualificando il fatto in maniera diversa da come risulta dal decreto che dispone il giudizio, dal momento che il secondo petitum mira a una pronuncia che gli consenta di dichiararsi incompatibile a giudicare della responsabilità penale dell’imputato.

In secondo luogo, la Corte ha rilevato l’inconferenza dei parametri costituzionali e convenzionali evocati a sostegno delle censure rispetto ai pretesi vulnera.

La Corte, infatti, ha ribadito che il principio costituzionale e convenzionale di terzietà e imparzialità del giudice “esclude che possa giudicare di una controversia un giudice che abbia un interesse proprio nella causa (…), ovvero che abbia già precedentemente svolto funzioni decisorie nella stessa causa: preclusione, quest’ultima, finalizzata a ‘evitare che la decisione sul merito della causa possa essere o apparire condizionata dalla forza della prevenzione – ossia dalla naturale tendenza a confermare una decisione già presa o a mantenere un atteggiamento già assunto – scaturente da valutazioni cui il giudice sia stato precedentemente chiamato in ordine alla medesima res iudicanda’ (Corte cost. sentenza n. 64/2022)”.

Tale principio, per contro, mai è stato evocato – né dalla giurisprudenza della Corte, né da quella della Corte EDU – “in relazione ad allegati vincoli alla potestas decidendi derivanti dalle decisioni di altri giudici intervenuti nella medesima causa”.

Peraltro, anche a supporre la sussistenza di tali ipotizzati vincoli nel processo a quo, la Corte ha affermato che il principio della soggezione soltanto alla legge, sancito dall’art. 101, secondo comma, Cost., non è affatto congruo rispetto alla sostanza del vulnus lamentato.

E ciò in quanto tale disposizione “è posta, tra l’altro, a presidio del principio dell’indipendenza (cosiddetta ‘esterna’) del giudice da ogni altro potere dello Stato, così come della sua indipendenza (cosiddetta ‘interna’) da tutti gli altri giudici, dai quali si distingue soltanto per diversità di funzioni ma rispetto ai quali non si trova in vincolo di soggezione gerarchica”.

Viceversa, non solo non si è mai “ritenuto che il principio dell’indipendenza ‘interna’ del giudice osti a che la sua potestas iudicandi sia delimitata, in conformità alla legge processuale vigente, da provvedimenti di altri giudici, ovvero da atti di altri soggetti”, ma “è del tutto fisiologico – e non contrasta con l’art. 101, secondo comma, Cost. – che il thema decidendum in ogni processo sia determinato e circoscritto da atti di soggetti diversi dal giudice (come le domande e le eccezioni delle parti nel processo civile, i motivi di ricorso nel processo amministrativo, l’imputazione formulata dal pubblico ministero ed eventualmente modificata dal decreto del GUP che dispone il giudizio nel processo penale), e che unicamente su tale thema decidendum il giudice sia chiamato ad esprimersi”.

La Corte, infine, ha escluso la violazione dell’art. 101, secondo comma, Cost. in presenza di vincoli alla potestas iudicandi del singolo giudice stabiliti dalla legge processuale – come accade al giudice del rinvio rispetto al principio di diritto enunciato dalla Corte di cassazione (Corte cost. sentenza n. 50/1970), ovvero al giudice contabile rispetto alla questione di massima decisa dalle sezioni riunite della Corte dei conti (Corte cost. sentenza n. 375/1996) – posto che anch’essa è “parte integrante di quella ‘legge’ a cui il giudice è soggetto in forza della previsione costituzionale in parola”.

Esito del ricorso:

Dichiarazione di manifesta infondatezza

Riferimenti normativi:

Art. 429, comma 2-bis c.p.p.

Art. 34 c.p.p.

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