Penale
Confisca
La confisca “societaria” per equivalente relativa ai beni utilizzati per commettere il reato è incostituzionale?
lunedì 11 marzo 2024
di Scarcella Alessio Consigliere della Corte Suprema di Cassazione
È stata dichiarata rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 2641, primo e secondo comma, c.c., nella parte in cui assoggetta a confisca per equivalente anche i beni utilizzati per commettere il reato, in relazione agli articoli 3, 27, primo e terzo comma, 42 e 117 Cost., quest’ultimo con riferimento all’articolo 1 del primo Protocollo addizionale alla Cedu, la cui ratifica è stata autorizzata con L. 4 agosto 1955, n. 848 che ad esso ha dato esecuzione, nonché agli articoli 11 e 117 Cost., con riferimento agli articoli 17 e 49, PAR. 3, Cdfue, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 (Cassazione penale, Sez. V, ordinanza 27 febbraio 2024, n. 8612).
Cassazione penale, Sez. V, ordinanza 27 febbraio 2024, n. 8612
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI | |
Conformi | Non si rinvengono precedenti |
Difformi | Non si rinvengono precedenti |
La Corte di Cassazione, con la pregevole ordinanza in commento, ha sollevato la questione di costituzionalità dell’articolo 2641, primo e secondo comma, c.c., nella parte in cui assoggetta a confisca per equivalente anche i beni utilizzati per commettere il reato, ravvisando plurimi profili di incompatibilità con i principi di uguaglianza, colpevolezza, di tutela della proprietà nonché con le norme convenzionali (art. 1, prot. 1 CEDU che tutela la proprietà) nonché euro unitari (art. 17 e 49 § 3 CDFUE).
Il fatto
La vicenda processuale scaturisce dall’attività ispettiva avviata sia dalla Banca d’Italia che dalla Banca centrale Europea (BCE) presso un noto istituto di credito italiano, a seguito della quale erano emerse irregolarità gestionali, consistite nel sistematico ricorso al sostegno finanziario concesso ai clienti/soci per l’acquisto di azioni proprie sul mercato primario e su quello secondario, accompagnato dal rilascio, in favore degli stessi soci, di lettere con le quali l’istituto assumeva l’impegno a riacquistare le azioni ovvero forniva garanzie di rendimento dei titoli; erano emersi, altresì, storni di interessi autorizzati dagli organi di vertice dell’istituto, funzionali a neutralizzare i costi dei finanziamenti erogati dalla banca e, infine, consistenti investimenti in fondi esteri utilizzati, in parte, per la detenzione indiretta di azioni proprie.
Tali anomalie operative non comunicate all’Istituto di vigilanza avevano generato un impatto negativo sotto il profilo patrimoniale e si erano tradotte nella necessità di circa un miliardo di euro di deduzioni dal patrimonio soggetto al controllo, con conseguente iscrizione di rettifiche relative a crediti deteriorati per circa 1,3 miliardi di euro; il piano di rafforzamento deliberato dalla banca, inoltre, non era andato a buon fine, con conseguente dichiarazione dello stato di dissesto da parte della BCE e la successiva procedura di liquidazione coatta amministrativa avviata con decreto del Ministero dell’Economia; con una successiva sentenza, infine, il Tribunale aveva dichiarato lo stato di insolvenza dell’istituto di credito.
In tale cornice erano quindi da inquadrare le condotte contestate agli imputati, accertate dalle sentenze di merito, di aggiotaggio manipolativo ed informativo, di ostacolo alla vigilanza della Banca d’Italia, della BCE e della CONSOB, nonché di falso in prospetto e, quindi, gli illeciti amministrativi contestati all’istituto di credito ai sensi del D.Lgs. n. 231/2001.
Per quanto qui di interesse, il Tribunale aveva disposto, nei confronti degli imputati, la confisca per equivalente, sino a concorrenza dell’importo di euro 963.000.000,00, in base alla disposizione di cui all’art. 2641, comma 2, c.c., che assoggetta a confisca per equivalente i mezzi impiegati per commettere il reato, ossia, nel caso in esame, le somme di denaro impiegate per la commissione dei reati di aggiotaggio e di ostacolo alla vigilanza, in quanto i finanziamenti erogati dalla banca erano stati funzionali all’illecita alterazione del prezzo delle azioni ed alla creazione dell’artificiosa rappresentazione dell’entità del patrimonio di vigilanza, individuato nella misura di euro 963.000.000,00 corrispondente all’entità del capitale finanziato accertato in sede giudiziale.
Nel caso di specie, in particolare, secondo quanto affermato dalla sentenza di primo grado, non era possibile procedere alla confisca diretta dei beni utilizzati per commettere i reati nei confronti della banca, in quanto l’istituto di credito era stato assoggettato a liquidazione coatta amministrativa, con conseguente spossessamento dei beni. Quanto alla confisca per equivalente, tuttavia, la Corte di Appello ne disponeva la revoca, evidenziando la marcata frizione della disposizione di cui all’art. 2641, comma 2, c.c., con i principi espressi sia dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 112/2019, che dalla giurisprudenza di legittimità: nel caso di confisca di natura sanzionatoria, quale deve essere intesa quella per equivalente – in cui i beni utilizzati per commettere il reato siano costituiti da somme di denaro non nella originaria disponibilità degli imputati, bensì di un soggetto terzo, ossia la banca -, adottare un provvedimento ablatorio come quello disposto dal Tribunale significava applicare una sanzione manifestamente sproporzionata, oltre che disancorata dal disvalore dell’illecito e dai singoli contributi concorsuali, a causa dell’automaticità del criterio di commisurazione, in aperto contrasto con i principi sanciti dagli artt. 3 e 27, comma 1, Costituzione.
Il ricorso
Contro la sentenza proponeva ricorso per Cassazione, per quanto qui rileva, il Procuratore generale contestando le argomentazioni utilizzate dalla Corte d’appello per giustificare la revoca della confisca per equivalente, disposta dal giudice di primo grado, ai sensi dell’art. 2641, comma 2, c.c., sino all’importo di 963.000.000,00 euro. Con specifico riguardo all’ammissibilità di una disapplicazione parziale della previsione normativa, con la conseguente possibilità di disporre, in coerenza con il principio di proporzionalità, una confisca non estesa all’intero ammontare delle somme di denaro utilizzate per commettere i reati, il PG, richiamando le garanzie e i principi costituzionali di cui sopra e le conclusioni di Corte cost., ord. n. 24/2017, sollecitava un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, al fine di chiarire, tramite una interpretazione della sentenza Grande Sezione, 8/3/2022, in C-205/20, se la normativa nazionale debba essere disapplicata anche quando tale risultato, in assenza di una base legale sufficientemente determinata, finisca, in violazione del principio di legalità e di separazione dei poteri, per attribuire al giudice valutazioni discrezionali in tema di politica criminale, rimesse dalla nostra Costituzione al legislatore.
La decisione della Cassazione
La Cassazione, come anticipato, ha rimesso alla Corte costituzionale la questione di costituzionalità dell’art. 2641, c.c.
Ad avviso della Cassazione, le critiche indirizzate dal Procuratore generale sono state ritenute fondate, dal momento che la motivazione della Corte d’appello giungeva alla conclusione della necessità di disapplicare la norma indicata, ossia l’art. 2641, comma 2, c.c., in relazione al primo comma dello stesso articolo sempre e comunque, conclusione fondata sulla mera valorizzazione dell’entità della pena detentiva prevista dal legislatore, ma senza alcuna indicazione delle ragioni e dei criteri valutativi che la sorreggerebbero.
Ritenuta rilevante (in quanto i reati non sono ancora prescritti) e non manifestamente infondata la questione di costituzionalità, la S.C. ha considerato i principi ribaditi da Corte cost., sent. n. 112/2019, con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 187-sexiesTUF, nel testo originariamente introdotto dall’art. 9, comma 2, lett. a), della L. 18 aprile 2005, n. 62 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità Europee. Legge comunitaria 2004), nella parte in cui prevedeva la confisca obbligatoria, diretta o per equivalente, del prodotto dell’illecito e dei beni utilizzati per commetterlo, e non del solo profitto, riferita all’aggiotaggio manipolativo quando integra illecito amministrativo.
Ha poi richiamato l’intervento del Legislatore, che, con l’art. 26, comma 1, lett. e) della L. 23 dicembre 2021, n. 238 recante “Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea”, ha apportato modifiche al TUF: una di queste riguarda l’art. 187, con l’espunzione della previsione della confisca di beni strumentali. Dunque, per la Cassazione, entrambi gli interventi, quello della Corte costituzionale e quello del legislatore, risultano chiaramente ispirati al principio secondo cui, nei casi di reati concernenti gli abusi di mercato, la confisca deve essere limitata al solo profitto, in quanto tale ablazione garantisce appieno la funzione ripristinatoria.
In altri termini, si intende restringere l’intervento ablatorio connotato da componenti punitivo-sanzionatorie, poiché esso, se fosse esteso al prodotto ed ai mezzi utilizzati per commettere il reato, potrebbe assumere carattere sproporzionato. Al contrario, limitando la confisca al profitto del reato, si realizza una proporzione sostanzialmente automatica tra il vantaggio scaturente dalla commissione dell’illecito e l’ammontare della confisca, anche per equivalente, senza alcun riverbero sull’entità del trattamento sanzionatorio. Tali principi per la S.C. sembrano dover essere applicati anche all’art. 2641 c.c., norma che concerne la confisca nel caso di reato di aggiotaggio, come pure nel caso del delitto di ostacolo alla vigilanza, data l’identità della ratio applicativa e della portata di tale disposizione rispetto a quelle sin qui citate.
L’unica strada praticabile è stata quindi ritenuta quella della rimessione alla Corte costituzionale della questione di legittimità dell’art. 2641, comma 2, c.c. Quanto alla preferenza accordata al percorso individuato rispetto al rinvio pregiudiziale, si tratta di decisione motivata dal concorso di rimedi giurisdizionali indicato da Corte cost., sent. n. 269/2017 e da allora progressivamente raffinato negli esiti, ma senza scalfire la regola, condivisa dalla Corte di giustizia, per la quale il carattere prioritario del giudizio di costituzionalità di competenza delle Corti costituzionali nazionali non collide con il sistema normativo euro unitario, purché i giudici ordinari restino liberi:
- a) di sottoporre alla Corte di giustizia, “in qualunque fase del procedimento ritengano appropriata e finanche al termine del procedimento incidentale di controllo generale delle leggi, qualsiasi questione pregiudiziale a loro giudizio necessaria”;
- b) di “adottare qualsiasi misura necessaria per garantire la tutela giurisdizionale provvisoria dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione”;
- c) di disapplicare, al termine del giudizio incidentale di legittimità costituzionale, la disposizione legislativa nazionale in questione che abbia superato il vaglio di costituzionalità, ove, per altri profili, la ritengano contraria al diritto dell’Unione (tra le altre, CGUE, Sez. V, sentenza 11/9/2014, nella causa C-112/13 A. c. B e altri; CGUE, Grande Sezione, sentenza 22/6/2010, nelle cause C-188/10, M. e C-189/10, A.).
Riferimenti normativi:
Art. 2641, comma 1, c.c.
Art. 2641, comma 2, c.c.