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La difficile linea di demarcazione tra i maltrattamenti in famiglia e stalking in danno dell’ex convivente

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La difficile linea di demarcazione tra i maltrattamenti in famiglia e stalking in danno dell’ex convivente

di Molina Ugo Domenico GIP del Tribunale di Patti

L’interprete è spesso costretto a tracciare l’esatto confine fra il delitto di maltrattamenti in famiglia e quello di stalking, allorché i comportamenti maltrattanti inizino coinvolgendo persone legate da una relazione connotata dalla stabilità dei loro rapporti assistenza e solidarietà reciproche, dalla convivenza e, eventualmente, dal rapporto di coniugio, e proseguano, sottoforma di atti persecutori, dopo la interruzione della relazione affettiva e della convivenza de facto e/o de iure. Dopo avere passato in rassegna i due principali indirizzi giurisprudenziali che si contendono il campo, saranno individuati e analizzati gli elementi che inducono a propendere per l’indirizzo esegetico secondo il quale le condotte vessatorie poste in essere ai danni del coniuge non più convivente, a seguito di separazione legale o di fatto, integrano il reato di maltrattamenti in famiglia e non quello di atti persecutori, se ed in quanto i vincoli nascenti dal coniugio o dalla filiazione permangono integri anche a seguito del venir meno della convivenza. È di contro ravvisabile il delitto di atti persecutori aggravato allorché la relazione qualificata o di fatto e la convivenza sussistenti in passato siano ormai cessate e i rapporti tra gli ex coniugi o conviventi o partner siano definitivamente interrotti, sì da non potersi parlare – né in senso tecnico e formale, né in senso atecnico ed informale – di “famiglia”.

Inquadramento sistematico e dubbio interpretativo

Il reato di maltrattamenti è un reato contro la famiglia (segnatamente contro l’assistenza familiare) ed il bene giuridico protetto è costituito dai congiunti interessi dello Stato alla tutela della famiglia da comportamenti vessatori e violenti e dall’interesse delle persone facenti parte della famiglia alla difesa della propria incolumità fisica e psichica. L’ambito applicativo dell’incriminazione dipende pertanto dall’estensione di rapporti basati sui vincoli familiari, intendendosi per famiglia ogni gruppo di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, si siano instaurati rapporti di assistenza e solidarietà reciproche, senza la necessità (pur ricorrente in tal genere di consorzi umani) della convivenza o di una stabile coabitazione.

Al di là della lettera della norma incriminatrice (“chiunque”) il reato di maltrattamenti familiari è un reato proprio, potendo essere commesso soltanto da chi ricopra un “ruolo” nel contesto della famiglia (coniuge, genitore, figlio) o una posizione di “autorità” o peculiare “affidamento” nelle aggregazioni comunitarie assimilate alla famiglia dall’art. 572 c.p., (organismi di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, professione o arte), in danno di un soggetto che faccia parte di tali aggregazioni familiari o assimilate (in questo senso, nella motivazione di Cass. pen., Sez. VI, n. 24575 del 24/11/2011 – dep. 2012, Rv. 252906-01).

Il reato di atti persecutori è invece un reato contro la persona, e in particolare contro la libertà morale, che può essere commesso da chiunque con atti di minaccia o molestia “reiterati” (integrando appunto un reato abituale), che non presuppone l’esistenza di relazioni interpersonali specifiche.

L’interprete è spesso costretto a tracciare l’esatto confine fra il delitto di maltrattamenti in famiglia e quello di stalking, allorché i comportamenti maltrattanti inizino coinvolgendo persone legate da una relazione connotata dalla stabilità dei loro rapporti assistenza e solidarietà reciproche, dalla convivenza e, eventualmente, dal rapporto di coniugio, e proseguano, sottoforma di atti persecutori, dopo l’interruzione della relazione affettiva e della convivenza de facto e/o de iure.

In questi casi, qualora le condotte maltrattanti siano astrattamente inquadrabili anche nel delitto di stalking (dunque quando si sostanzino in reiterate minacce o molestie danti luogo ad ansia o al fondato timore per l’incolumità personale propria o di persona vicina), si tratta di verificare sino a quando possa ancora parlarsi di comportamenti realizzati in danno di una persona “della famiglia o comunque convivente”, dunque nell’ambito di una comunità familiare o a questa assimilata (c.d. parafamiliare) o di una relazione stabile di coabitazione – situazione riconducibile all’ipotesi di cui all’art. 572 c.p., – e quando invece detta condizione non possa più ritenersi esistente, così da rendere ravvisabile la fattispecie – meno grave – di cui all’art. 612-bis c.p., comma 2.

Il divieto di analogia in malam partem e la giurisprudenza costituzionale

Il primo canone ermeneutico che deve guidare l’interprete nella individuazione del labile confine tra le due fattispecie è certamente il divieto di analogia in malam partem, strettamente connesso a quello della interpretazione letterale.

Sul punto, proprio con riferimento al discrimen tra il delitto di stalking e quello di maltrattamenti in famiglia, la Corte costituzionale è stata chiarissima: “Il divieto di analogia non consente di riferire la norma incriminatrice a situazioni non ascrivibili ad alcuno dei suoi possibili significati letterali, e costituisce così un limite insuperabile rispetto alle opzioni interpretative a disposizione del giudice di fronte al testo legislativo. E ciò in quanto, nella prospettiva culturale nel cui seno è germogliato lo stesso principio di legalità in materia penale, è il testo della legge – non già la sua successiva interpretazione ad opera della giurisprudenza – che deve fornire al consociato un chiaro avvertimento circa le conseguenze sanzionatorie delle proprie condotte; sicché non è tollerabile che la sanzione possa colpirlo per fatti che il linguaggio comune non consente di ricondurre al significato letterale delle espressioni utilizzate dal legislatore… Il divieto di applicazione analogica delle norme incriminatrici da parte del giudice costituisce il naturale completamento di altri corollari del principio di legalità in materia penale sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., e in particolare della riserva di legge e del principio di determinatezza della legge penale (su quest’ultimo profilo, si vedano in particolare le sentenze Corte cost. n. 96 del 1981 e Corte cost. n. 34 del 1995, nonché, con riferimento alle sanzioni amministrative di carattere punitivo, Corte cost. n. 121 del 2018): corollari posti a tutela sia del principio “ordinamentale” della separazione dei poteri, e della conseguente attribuzione al solo legislatore del compito di tracciare i confini tra condotte penalmente rilevanti e irrilevanti (Corte cost. ord. n. 24 del 2017), nonché – evidentemente – tra le diverse figure di reato; sia della garanzia “soggettiva”, riconosciuta ad ogni consociato, della prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie delle proprie condotte, a tutela delle sue libere scelte d’azione (Corte cost. sentenza n. 364 del 1988)”.

Secondo il Giudice delle Leggi, quindi, nella materia in oggetto, la soluzione esegetica offerta deve sempre essere compatibile “…con i significati letterali dei requisiti alternativi «persona della famiglia» e «persona comunque […] convivente» con l’autore del reato; requisiti che circoscrivono – per quanto qui rileva – l’ambito delle relazioni nelle quali le condotte debbono avere luogo, per poter essere considerate penalmente rilevanti ai sensi dell’art. 572 c.p.” (Corte cost., 14/5/2021, n.98).

Il delitto di cui all’art. 572, c.p., quindi, si configura solo quando la condotta qualificabile come “maltrattante” (e non di mero abuso dei mezzi di correzione di cui al successivo art. 571 c.p.) sia stata posta in essere in danno di una persona “della famiglia o comunque convivente” (ovvero “sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte”). Il reato di cui all’art. 612-bis c.p., invece, si configura quando le condotte vessatorie ivi descritte, nella ipotesi aggravata ai sensi del comma 2, siano poste in essere in danno del “coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa (ovvero se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici”).

Primo orientamento della Corte di Cassazione

La Corte di legittimità ha avuto modo di affermare il principio di diritto, corroborato da una ricca messe di decisioni giurisprudenziali, secondo cui il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile anche nel caso in cui le condotte proseguano dopo la cessazione della convivenza della vittima con l’agente, allorché non siano venuti meno i vincoli di solidarietà che derivano dalla precedente qualità del rapporto intercorso tra le parti (tra le tante: Cass. pen., Sez. III, n. 43701 del 12/6/2019, G., Rv. 277987-01).

Il medesimo principio è stato affermato anche in relazione alla situazione in cui le condotte vessatorie siano poste in essere ai danni del coniuge non più convivente, a seguito di separazione legale o di fatto, in presenza della – medesima – condizione che i vincoli nascenti dal coniugio o dalla filiazione permangono integri anche a seguito del venir meno della convivenza (Cass. pen., Sez. VI, n. 3087 del 19/12/2017 – dep. 2018, F., Rv. 272134-01). A sostegno dell’affermazione di principio si è invero notato che la perdurante necessità di adempiere gli obblighi di cooperazione nel mantenimento, nell’educazione, nell’istruzione e nell’assistenza morale del figlio minore (anche naturale) derivanti dall’esercizio congiunto della potestà genitoriale, implica necessariamente il rispetto reciproco tra i genitori anche se non conviventi e, dunque, comporta la sussumibilità della condotta vessatoria posta in essere dall’agente nell’ipotesi di cui all’art. 572 c.p., (Cass. pen., Sez. VI, n. 33882 del 8/7/2014, C., Rv. 262078).

In sintesi, secondo questo indirizzo esegetico, “il delitto di maltrattamenti in famiglia può essere ravvisato in tutti i casi in cui, nonostante l’interruzione della relazione di convivenza, eventualmente anche attestata da un provvedimento formale di separazione legale o di divorzio, residuino comunque dei rapporti di stabile frequentazione e di solidarietà determinati dalla pregressa esistenza del rapporto familiare, soprattutto allorché dovuti alle comuni esigenze di accudimento e di educazione dei figli, atteso che in tale caso può ancora parlarsi di fatti commessi nel contesto di una “relazione familiare”. È di contro ravvisabile il delitto di atti persecutori aggravato allorché la relazione qualificata o di fatto e la convivenza sussistenti in passato siano ormai cessate e i rapporti tra gli ex coniugi o conviventi o partner siano definitivamente interrotti, sì da non potersi parlare – né in senso tecnico e formale, né in senso atecnico ed informale – di “famiglia” (Cass. pen., Sez. VI, 2/8/2021, n.30129).

Diverso indirizzo ermeneutico

A fronte dell’indirizzo esegetico appena tracciato, si colloca un diverso approccio ermeneutico secondo il quale integrano il reato di maltrattamenti in famiglia, e non quello di atti persecutori, le condotte vessatorie nei confronti del coniuge che, sorte in ambito domestico, proseguano dopo la sopravvenuta separazione di fatto o legale, in quanto il coniuge resta “persona della famiglia” fino allo scioglimento degli effetti civili del matrimonio, a prescindere dalla convivenza (Cass. pen., Sez. VI, sentenza n. 45400 del 29/11/2022, Rv. 284020 – 01; massime precedenti conformi: Cass. pen., n. 33882/2014 Rv. 262078 – 01, Cass. pen., n. 3087/2018 Rv. 272134 – 01, Cass. pen., n. 39331/2016 Rv. 267915 – 01).

Secondo questo orientamento La separazione da un lato è una condizione che incide soltanto sull’assetto concreto delle condizioni di vita, ma non sullo status acquisito; dall’altro dispensa dagli obblighi di convivenza e fedeltà, ma lascia integri quelli discendenti dall’art. 143 c.c., comma 2, (reciproco rispetto, assistenza morale e materiale oltre che di collaborazione) cosicché il coniuge separato resta “persona della famiglia” come peraltro si evince anche dalla lettura dell’art. 570 c.p..4 (Cass. pen., Sez. VI, sentenza n. 45400 del 29/11/2022, Rv. 284020 – 01, in parte motiva).

Questo diverso approccio interpretativo sembra prescindere dalla conservazione o meno dei rapporti di stabile frequentazione e di solidarietà tra i coniugi separati, ritenendo sussistere la fattispecie di cui all’art. 572, c.p., ogni qual volta i fatti delittuosi siano stati commessi nel corso della separazione, di fatto o di diritto, tra coniugi, mentre nel caso di convivenza more uxorio il delitto di maltrattamenti in famiglia sarà configurabile solo nel caso in cui le condotte maltrattanti siano state perpetrate ai danni del partner durante la convivenza (“La fattispecie va qualificata ai sensi dell’art. 572 c.p. nel caso i fatti delittuosi siano stati commessi:

a) nel corso della convivenza (o si accerti che questa si sia interrotta per l’emissione della misura cautelare in atto);

b) nel corso della separazione tra coniugi, di fatto o di diritto.

Se, invece, il delitto si è consumato nel corso di una convivenza già cessata, per volontà di uno o di entrambi i partner, la qualificazione giuridica è quella di atti persecutori aggravati ex art. 612-bis c.p., comma 2 – Cass. pen., Sez. VI, sentenza n. 45400 del 29/11/2022, Rv. 284020 – 01, in parte motiva).

Indirizzo interpretativo cui si intende aderire

Si ritiene preferibile il primo degli indirizzi interpretativi sopra richiamati, per le seguenti e convergenti ragioni.

  1. a) Secondo la giurisprudenza di legittimità, in sedes materiae, “I concetti di “famiglia” e di “convivenza” vanno intesi nell’accezione più ristretta e presuppongono una comunità connotata da una radicata e stabile relazione affettiva interpersonale e da una duratura comunanza d’affetti che non solo implichi reciproche aspettative di mutua solidarietà ed assistenza, ma sia fondata sul rapporto di coniugio o di parentela o, comunque, su una stabile condivisione dell’abitazione, ancorché non necessariamente continua” ( pen., Sez. VI, sentenza n. 9663 del 21/3/2022) Rv. 283120 – 01; massime precedenti conformi: Cass. pen., n. 39532/2021 Rv. 282254 – 01, Cass. pen., n. 45095/2021 Rv. 282398 – 01).

La famiglia è, infatti, la principale formazione sociale nella quale l’uomo svolge la sua personalità (secondo il dettato dell’art. 2 della Costituzione). È il luogo degli affetti, delle relazioni, della crescita e dell’integrazione del maschile e del femminile, nonché il luogo in cui si esprimono responsabilità riconosciute e condivise e in cui le generazioni possono stabilire rapporti di reciprocità. In altri termini, “La famiglia è luogo di incontro e di vita comune nel quale la personalità di ogni individuo si esprime, si sviluppa e si realizza attraverso l’instaurazione di reciproche relazioni di affetto e di solidarietà, non già sede di compressione e di mortificazione di diritti irrinunciabili” (Cass. civ., Sez. I, 10/5/2005, n. 9801).

Se questo è il concetto di “famiglia” riconosciuto a livello penalistico, civilistico e sociologico, il coniuge separato (di fatto e/o di diritto) non può essere considerato una “persona della famiglia”, rispetto all’autore del crimine, qualora sia stata interrotta la convivenza con l’ex partner, non sia stato mantenuto neppure un rapporto di stabile frequentazione, siano stati recisi i legami affettivi e siano definitivamente venute meno le reciproche aspettative di mutua solidarietà ed assistenza. Argomentando diversamente, verrebbe disatteso il concetto stesso di “famiglia”, come univocamente riconosciuto, e verrebbe proposta una operazione di ortopedia ermeneutica contraria al divieto di analogia in malam partem operante in materia, che, invece, impone di intendere i concetti di “famiglia” e di “convivenza” di cui all’art. 572 c.p. nell’accezione più ristretta, quale comunità connotata da una radicata e stabile relazione affettiva interpersonale, da una duratura comunanza di affetti implicante reciproche aspettative di mutua solidarietà e da una stabile condivisione dell’abitazione, ancorché non necessariamente continuativa.

In questo senso, si è espressa, di recente, la giurisprudenza di legittimità, secondo cui: “In tema di rapporti fra il delitto di maltrattamenti in famiglia e quello di atti persecutori, il divieto di interpretazione analogica delle norme incriminatrici impone di intendere i concetti di “famiglia” e di “convivenza” di cui all’art. 572 c.p. nell’accezione più ristretta, di una comunità connotata da una radicata e stabile relazione affettiva interpersonale e da una duratura comunanza di affetti implicante reciproche aspettative di mutua solidarietà ed affetti, fondata sul rapporto di coniugio o di parentela o, comunque, su una stabile condivisione dell’abitazione, ancorché non necessariamente continuativa, sicché non è configurabile il reato di maltrattamenti in famiglia, bensì l’ipotesi aggravata di atti persecutori di cui all’art. 612-bis, comma secondo, c.p. in presenza di condotte vessatorie poste in essere da parte di uno dei conviventi “more uxorio” ai danni dell’altro dopo la cessazione della convivenza (Cass. pen., Sez. VI, sentenza n. 15883 del 26/4/2022, Rv. 283436 – 01).

  1. b) Anche il canone teleologico e le dinamiche proprie dei delitti in oggetto inducono a propendere per il primo degli indirizzi esegetici richiamati.

Invero, nel delitto di stalking l’agente e la vittima si muovono in un’ottica “statica”, all’interno di una “causalità lineare” nella quale l’autore del crimine pone in essere gli atti persecutori e la vittima ne subisce gli effetti, senza le interazioni e le interferenze tra i protagonisti proprie delle relazioni diadiche (Si è icasticamente detto che nel delitto di stalking vi è “la presenza di una vittima che fugge e di un carnefice che insegue”).

Nel caso dei maltrattamenti in famiglia, invece, spesso la vittima e il carnefice sono legati da una “dinamica circolare”, tipica delle relazioni di coppia, nella quale i comportamenti dell’uno si correlano a quelli dell’altro e le regole disfunzionali rimangono inalterate per la volontà – insana, disfunzionale e autodistruttiva – della vittima di rimanere legata al suo carnefice.

Il delitto di maltrattamenti in famiglia si inserisce, perlopiù, in un «contesto affettivo protetto», caratterizzato come tale da «legami affettivi stabili, tali da rendere particolarmente difficoltoso per colui che patisce i maltrattamenti sottrarsi ad essi e particolarmente agevole per colui che li perpetua proseguire». «Dal punto di vista della vittima la reazione è inibita perché profondo è il sentimento di dipendenza psicologica, irrinunciabile il progetto di vita intrapreso, pesante il senso di subordinazione o insuperabile il condizionamento materiale ed economico: la vittima ritiene comunque di dover accettare o di non poter o saper rompere il rapporto. Dal punto di vista dell’autore, il legame affettivo – sebbene sfibrato dalle mortificazioni -, in uno con la soggezione psicologica della vittima, la sua dipendenza morale, il suo affetto, il suo condizionamento materiale ed economico, il suo rispetto del valore stesso del rapporto, sono gli elementi che consentono la reiterazione, l’abitualità dei suoi comportamenti di negazione e mortificazione dell’impegno di stabilità, assistenza reciproca e fedeltà». Questa condizione di particolare fragilità e di particolare vulnerabilità della vittima è alla base del più grave trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 572, c.p., rispetto a quello di cui all’art. 612-bis, c.p.

Anche il canone teleologico e le dinamiche proprie dei delitti in esame, dunque, inducono ad escludere la configurabilità del delitto di cui all’art. 572, c.p., e a ricondurre la fattispecie nelle maglie dell’art. 612-bis, c.p., ogniqualvolta la condotta criminosa si innesti in un rapporto tra coniugi separati – di fatto o legalmente – «ormai sgretolato e indebolito nella sua capacità di condizionare la vittima», e a riservare l’operatività del reato di maltrattamenti in famiglia a quei contesti affettivi e a quei rapporti tra coniugi separati in cui, per le più disparate ragioni, i soggetti coinvolti hanno mantenuto un rapporto di attuale condivisione di spazi e progetti di vita che condizionano fortemente la capacità di reagire della vittima.

Conclusioni

In definitiva:

  1. a) il concetto di “famiglia”, univocamente riconosciuto a livello penalistico, civilistico e sociologico quale principale formazione sociale nella quale l’individuo svolge la sua personalità, luogo degli affetti, delle relazioni, della crescita e dell’integrazione del maschile e del femminile, in cui si esprimono responsabilità riconosciute e condivise e in cui le generazioni possono stabilire rapporti di reciprocità;
  2. b) il divieto di interpretazione analogica delle norme incriminatrici che impone di intendere i concetti di “famiglia” e di “convivenza” di cui all’ 572 c.p. nell’accezione più ristretta, quale comunità connotata da una radicata e stabile relazione affettiva interpersonale e da una duratura comunanza di affetti implicante reciproche aspettative di mutua solidarietà, fondata su una stabile condivisione dell’abitazione, ancorché non necessariamente continuativa;
  3. c) il particolare contesto nel quale si generano le condotte criminose di cui all’ 572, c.p., caratterizzato da legami affettivi stabili, tali da rendere particolarmente difficoltoso per colui che patisce i maltrattamenti sottrarsi ad essi e particolarmente agevole per colui che li perpetua proseguire;
  4. d) la peculiare “dinamica circolare”, tipica delle relazioni di coppia, nella quale si originano i comportamenti maltrattanti di cui all’ 572, c.p., e in cui i comportamenti dell’uno si correlano a quelli dell’altro e le regole disfunzionali rimangono inalterate per la volontà – insana, disfunzionale e autodistruttiva – della vittima di rimanere legata al suo carnefice

sono tutti elementi che inducono a propendere per l’indirizzo esegetico secondo il quale le condotte vessatorie realizzate in caso di cessazione della convivenza con la vittima, sia nel caso di separazione legale o di divorzio, sia nel caso di interruzione della convivenza allorché si tratti di relazione di fatto, integrano il reato di maltrattamenti in famiglia e non anche quello di atti persecutori, allorché i vincoli di solidarietà derivanti dal precedente rapporto intercorso tra le parti non più conviventi, nascenti dal coniugio, dalla relazione more uxorio o dalla filiazione, permangano integri o comunque solidi ed abituali nonostante il venir meno della convivenza (Cass. pen., Sez. VI, 19/5/2021, n. 30129); ed ancora le condotte vessatorie poste in essere ai danni del coniuge non più convivente, a seguito di separazione legale o di fatto, integrano il reato di maltrattamenti in famiglia e non quello di atti persecutori, se ed in quanto i vincoli nascenti dal coniugio o dalla filiazione permangono integri anche a seguito del venir meno della convivenza (riconosciuta, nella specie, l’ipotesi di stalking atteso che le condotte vessatorie dell’ex marito erano state attuate dopo la cessazione di qualsiasi aspettativa solidaristica tra lui e la vittima, in qualche modo fondata sul precedente legame familiare o di convivenza) (Cass. pen., Sez. V, 17/3/2021, n. 20861; nello stesso senso: Cass. pen., Sez. VI, 3/11/2020, n. 37077).

Riferimenti normativi:

Art. 572 c.p.

Art. 612-bis c.p.

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