fbpx
Lun Mer Ven 15:30 -19:30

Messa alla prova: l’eliminazione delle conseguenze dannose è elemento costitutivo

Avvocato Penalista e Cassazionista Roma  > News >  Messa alla prova: l’eliminazione delle conseguenze dannose è elemento costitutivo
0 Comments

Penale

Messa alla prova

Messa alla prova: l’eliminazione delle conseguenze dannose è elemento costitutivo

venerdì 01 settembre 2023

di Stagi Ludovica Avvocato in Sassari

La Cassazione penale, Sez. III, con la sentenza 26 luglio 2023, n. 32454 ribadisce che l’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato è elemento costitutivo della messa alla prova ed autonomo rispetto all’affidamento al servizio sociale

Cassazione penale, Sez. III, sentenza 26 luglio 2023, n. 32454

La sentenza n. 32454/2023 della Corte di Cassazione, oggetto del presente commento, analizza gli elementi costitutivi della messa alla prova ed in particolare pone l’attenzione sulla necessità che, per ritenersi raggiunto l’esito positivo della misura e quindi possa dichiararsi l’estinzione del reato per cui si procede, è necessario che l’imputato abbia posto in essere condotte riparatorie volte all’eliminazione delle condotte dannose o pericolose conseguenti al reato.

Questa la vicenda processuale: il procuratore generale presso la corte d’appello di Cagliari ha impugnato l’ordinanza di messa alla prova e la sentenza del tribunale di Cagliari che aveva dichiarato non doversi procedere per i reati di cui all’art. 449 c.p. (violazione dei sigilli) ed art. 44 lett. b D.P.R. n. 380/2001 (illecito edilizio di costruzione abusiva) a seguito dell’esito positivo della messa alla prova. In particolare, ad avviso del procuratore generale la sentenza era errata laddove gli imputati erano stati ammessi alla prova senza che fosse stata prevista alcuna prescrizione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato – ed infatti né le opere edilizie abusive erano state demolite né era stata ottenuta una concessione edilizia in sanatoria – e laddove era stato ritenuto raggiunto l’esito positivo della messa alla prova senza che fossero eseguite le condotte riparatorie.

La Cassazione ha ritenuto fondati i motivi del ricorso.

Prima di soffermarsi più specificatamente sull’analisi della sentenza in commento, pare opportuno inquadrare l’istituto in esame.

La misura della sospensione del procedimento con messa alla prova è stata introdotta con la L. n. 67/2014 al fine di dare attuazione alla sentenza della corte EDU (sentenza Torreggiani c. Italia) che aveva condannato l’Italia per il carattere strutturale del sovraffollamento in carcere, richiedendo correttivi volti al superamento della visione carcerocentrica del nostro sistema sanzionatorio.

La messa alla prova, che si inserisce nel novero degli istituti riconducibili alla cd. giustizia riparativa e che con notevoli differenze era già previsto per i soggetti minorenni agli artt. 28 e 29D.P.R. n. 448/1988, ha una duplica natura, sia sostanziale che processuale: dal punto di vista sostanziale l’istituto è disciplinato dagli artt. 168-bis, 168-ter, 168-quater c.p., sul piano processuale dagli artt. 464-bis e 464-nonies c.p.p. e artt. 141-bis, 141-ter disp att. c.p.p.

La Corte di Cassazione aveva inizialmente valorizzato la natura sostanziale dell’istituto, con conseguente applicazione della retroattività della legge più favorevole ex art. 2 c.p. cosicché l’istituto de quo poteva essere applicato anche ai processi in corso anche qualora fosse già decorso il termine, previsto a pena di decadenza, per farne richiesta (ossia la dichiarazione di apertura del dibattimento ex art. 464-quinquies c.p.p.); viceversa, la Corte costituzionale, pur riconoscendo la duplice natura – sostanziale e processuale – della messa alla prova, aveva in diverse sentenze valorizzato la natura processuale.

In particolare, la Corte costituzionale aveva chiarito che l’istituto in esame, pur avendo effetti sostanziali in quanto dava luogo all’estinzione del reato, era connotato da un’intrinseca dimensione processuale in quanto consisteva in un nuovo procedimento speciale alternativo al giudizio e, pertanto, essendo un istituto di diritto processuale era regolato dal principio tempus regit actum e non già dal principio di retroattività della lex mitior (Corte cost. n. 240/2015). Tale interpretazione ha poi prevalso tra gli interpreti, con importanti conseguenze, tanto più ove si consideri che il legislatore inizialmente non aveva previsto una disciplina transitoria: la messa alla prova non può essere applicata nei procedimenti in corso per i quali è già stato dichiarato aperto il dibattimento al momento dell’entrata in vigore della legge che ha introdotto la misura.

Una disciplina transitoria è stata successivamente introdotta con la riforma Cartabia con l’art. 90D.Lgs. n. 150/2022 che, pur derogando al principio di retroattività della legge più favorevole, consente di fare richiesta della messa alla prova anche qualora sia decorso il termine di cui all’art. 464-quinquies cpp.

La messa alla prova può essere richiesta dall’imputato e, a seguito della riforma Cartabia, anche dal pubblico ministero.

L’art. 168-bis, comma 1, c.p. prevede le condizioni oggettive di applicazione della messa alla prova. Essa è applicabile ai reati puniti con la sola pena pecuniaria o con la pena detentiva non superiore nel massimo a quattro, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria nonché ai delitti elencati dall’art. 550 c.p.p., ossia ai delitti per i quali è prevista la citazione diretta a giudizio. La riforma Cartabia ha ampliato l’ambito di applicazione della messa alla prova, senza modificare il limite di pena fissato dall’art. 168-bis c.p. ma intervenendo ampliando l’elenco dei delitti a citazione diretta ex art. 50 c.p.p.

Le condizioni soggettive dell’applicazione della messa alla prova sono invece disciplinate dall’art. 168-bis, comma 5, c.p. La misura è preclusa ai delinquenti abituali, professionali e per tendenza; può invece essere richiesta dai recidivi.

Il contenuto della misura – aspetto sul quale si è soffermato la sentenza oggetto del presente commento – è disciplinato dall’art. 168-bis, commi 2 e 3 c.p., nonché dal codice di rito e si incentra sulla prestazione di condotte riparatorie del fatto commesso, ivi compreso il risarcimento delle conseguenze derivanti dall’illecito, sull’affidamento dell’imputato al servizio sociale per lo svolgimento di un programma che può prevedere lo svolgimento di un lavoro di pubblica utilità e sull’osservanza di prescrizioni relative ai rapporti con il servizio o con una struttura sanitaria ovvero prescrizioni relative alla dimora, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare determinati locali (art. 168-bis, comma 2 c.p.). È il giudice, ai sensi dell’art. 464-quinquies, comma 1, c.p.p. a stabilire il termine entro il quale le prescrizioni e gli obblighi relativi alle condotte riparatorie o risarcitorie devono essere adempiuti; termine che può essere prorogato, su istanza dell’imputato, per non più di una volta e solo qualora ricorrano gravi motivi.

Irrilevante è l’ordine cronologico con cui vengono integrati i due elementi costitutivi della messa alla prova, ma è pacifico dal tenere letterale della norma che tanto l’affidamento al servizio sociale per svolgere eventualmente un lavoro di pubblica utilità quanto le condotte riparatorie volte ad eliminare le conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato commesso sono elementi essenziali ed autonomi della misura. Ed anzi, proprio tenuto conto della natura dell’istituto in esame riconducibile alla cd. giustizia riparativa, particolare importanza assumono le condotte riparatorie che molte volte, come è successo nel caso in questione, non vengono invece valorizzate ritenendo sufficiente, ai fini della concessione della misura richiesta, lo svolgimento di un lavoro di pubblica utilità che, invece, di per sé solo, non assume alcun rilievo.

La giurisprudenza è pacifica nell’affermare che l’eliminazione delle conseguenze pericolose o dannose nei reati edilizi, che costituisce presupposto per il positivo superamento della messa alla prova, si estrinseca nella demolizione spontanea e preventiva dell’opera abusiva ovvero nell’ottenere una concessione in sanatoria per ricondurre l’opera abusiva nell’alveo della legalità (Cass. pen. n. 39455/2017; Cass. pen. n. 36822/2022).

Ebbene, nella vicenda che ci occupa risultava essere stato svolto solo il lavoro di pubblica utilità ma non che fossero state adottate le condotte volte all’eliminazione delle conseguenze del reato, non essendovi stata né la demolizione dell’opera né la richiesta di una concessione in sanatoria e con ciò mancando uno degli elementi essenziali per la concessione della messa alla prova.

Pertanto, condivisibilmente, la Cassazione ha annullato la sentenza e l’ordinanza emesse dal giudice di primo grado.

La sentenza in commento ribadisce infine che la concessione della sospensione del procedimento con messa alla prova è rimessa al potere discrezionale del giudice che, verificata la sussistenza dei presupposti di legge – e quindi anche che siano state eliminate le condotte pericolose o dannose conseguenti al reato – deve fare una prognosi positiva relativamente all’efficacia dissuasiva e riabilitativa del programma del trattamento proposto e alla gravità delle ricadute negative sull’imputato in caso di esito negativo (Cass. pen. n. 3236/2020; Cass. pen. n. 644/2017; Cass. pen. n. 9581/2016). L’idoneità del programma proposto deve essere valutata dal giudice secondo i criteri di cui all’art. 133 c.p. Nel caso in cui il giudice ritenga di non poter formulare una prognosi favorevole circa l’astensione dell’imputato dal commettere nuovi reati, non è necessario che egli valuti anche l’idoneità del programma presentato. La giurisprudenza di legittimità, peraltro, ritiene che nell’esercizio del suo potere discrezionale il giudice può fondare il diniego di concessione della misura anche sulla presenza di un solo precedente specifico.

Riferimenti normativi:

Art. 168-bis c.p.

  1. n. 67/2014
Condividi

Invia con WhatsApp