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La riforma organica della giustizia riparativa è entrata in vigore

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Procedura penale

Giustizia riparativa

La riforma organica della giustizia riparativa è entrata in vigore

martedì 29 agosto 2023

di Alberta Valentina Avvocato in Milano, vicepresidente della Camera Penale di Milano

Dal 30 giugno scorso sono in vigore le norme del D.Lgs. n. 150/2022 sulla giustizia riparativa, in attesa che sia compiuta la ricognizione dei Centri esistenti ad opera delle Conferenze Locali ex art. 92. Le nuove norme forniscono importanti strumenti per i difensori e richiedono una consapevole attenzione rispetto alla loro applicazione pratica. Gli snodi particolarmente problematici sono legati all’innesto del programma di restorative justice nel processo penale. Vanno dunque analizzati con particolare attenzione i momenti dell’invio del caso e della valutazione dell’esito, rispetto ai benefici previsti ed ai potenziali elementi di pregiudizio della giustizia riparativa.

D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150

Il differimento già previsto rispetto alla entrata in vigore degli aspetti strutturali della giustizia riparativa nella versione originaria del D.Lgs. n. 150/2022 (con riferimento ai requisiti dei Centri e dei mediatori) è stato ampliato con l’inserimento di un comma 2 bis nell’art. 92 alle norme processuali, rispetto alle quali si sarebbero potuti porre aspetti problematici di operatività immediata in quanto norme con effetti sostanziali favorevoli. Dal 30 giugno scorso, la disciplina organica è in vigore.

L’operatività in concreto della riforma resta tuttavia in parte condizionata dal mancato intervento governativo rispetto alla istituzione e alle attività della Conferenza Nazionale e delle Conferenze Locali, presupposto necessario per la operatività in via transitoria dei Centri esistenti. Si può tuttavia ritenere che le autorità giudiziarie competenti possano già oggi operare invii rituali di fascicoli processuali ai Centri pubblici operanti sul territorio, con l’auspicio che a breve ne verrà formalizzato il ruolo con la ricognizione prevista dall’art. 92 e poi, successivamente con il procedimento di istituzione previsto dagli artt. 63 ss.

La normativa organica della restorative justice si struttura sulla base di una disciplina a sé stante, che riguarda tutti i procedimenti di giustizia riparativa e ne prevede le caratteristiche essenziali, integrata da norme integrative del codice penale, di procedura penale e dell’ordinamento penitenziario, che sono volte ad integrare la normativa specifica negli strumenti procedimentali ordinari. Il legislatore delegato ha così attuato la delega 134/21 che all’art. 1 comma 18 aveva formulato i relativi principi e criteri direttivi.

Le norme di struttura (artt. 4267) sono suddivise in cinque capi, che riguardano rispettivamente i principi generali, le garanzie dei partecipanti ai programmi, i programmi (svolgimento e valutazione), la formazione dei mediatori, i servizi.

In sintesi estrema, le norme richiamate introducono quella che certamente era una disciplina necessaria di un fenomeno esistente a prescindere da un suo formale riconoscimento. La giustizia riparativa aveva infatti trovato spazi operativi nel procedimento minorile e nell’ambito di progetti destinati a persone in esecuzione di pena. La potenzialità del metodo del dialogo tra “persona indicata quale autore dell’offesa” e “vittima” (importanti le definizioni di cui all’art. 42, che danno conto di un sistema autonomo rispetto a quello penale, con concetti propri e distinti rispetto a quelli propri delle tradizionali categorie penalistiche) hanno indotto il legislatore alla disciplina di tale fenomeno, operante in qualsiasi fase del procedimento penale o dell’esecuzione, a prescindere dal processo penale, per ogni tipo di reato, sulla base del principio del consenso libero, informato, revocabile, della gratuità, della riservatezza, della tutela e del rispetto delle posizioni individuali, della equi prossimità ed indipendenza del mediatore, della pari dignità delle parti in causa.

La necessità di formalizzare tali principi è innegabile. Da una parte, era indispensabile stabilire in modo chiaro e indiscutibile quali fossero i principi che proteggono i soggetti rispetto alla loro libera e consapevole partecipazione al programma; tali principi ineriscono tipicamente la fase di accesso alla giustizia riparativa.

Dall’altro lato, sono stati inseriti elementi fondamentali di garanzia nel programma e relativi ai rapporti tra il programma e il procedimento, di cognizione o di sorveglianza. Tali principi sono quelli che tutelano nel primo caso la presunzione di innocenza, soprattutto nel caso di mancato esito riparativo del programma, e nel secondo la libertà di scelta della persona condannata, per la quale la giustizia riparativa non può divenire un onere assimilabile ad una sorta di sanzione accessoria.

Sono soprattutto queste le norme sulle quali l’attenzione deve essere massima. Esse dovranno guidare l’interprete nell’applicazione delle norme procedimentali, in particolare l’art. 129-bis c.p.p., in modo coerente rispetto alla necessità di garantire l’autonomia dell’ambito della restorative justice rispetto all’area del procedimento penale stesso, consentendo di mettere in atto la scelta di complementarietà perseguita dal legislatore del 2021, e dunque la impermeabilità tendenziale tra i due ambiti.

Venendo a trattare dei momenti di innesto del programma di giustizia riparativa nel procedimento penale, ci si deve concentrare sulla fase dell’invio del caso al centro e poi su quella della valutazione dell’esito.

La prima fase è in concreto disciplinata dal richiamato art. 129-bis c.p.p., che prevede che l’autorità giudiziaria competente (individuata anche sulla base dell’art. 45 disp. att. c.p.p.), su istanza di parte o anche di ufficio, sentite le parti, possa disporre l’invio del caso ad un Centro per la giustizia riparativa. I parametri di valutazione sono tre e decisamente limitati, al fine di preservare l’imparzialità del giudice rispetto all’oggetto del giudizio: due sono negativi, e consistono nella verifica dell’assenza di un pericolo concreto per gli interessati e per l’accertamento dei fatti (una duplice verifica che deve caratterizzarsi per concretezza, e dunque evita il rischio che si possano stabilire presunzioni per titolo di reato); l’ulteriore requisito positivo riguarda l’utilità alla risoluzione delle questioni derivanti dal fatto per cui si procede (che deve invece essere verifica in astratto, senza che possano esserci anticipazioni di giudizio che rischierebbero di compromettere sia la verginità cognitiva che la imparzialità del giudice).

Non è invece prevista alcuna verifica del consenso delle parti alla partecipazione al programma, che rimane momento demandato al mediatore; il giudice, nell’audizione delle parti, dovrà solo verificare una generica disponibilità ad essere contattate dal Centro per la giustizia riparativa. Si deve tenere sempre in considerazione però il fatto che la partecipazione della vittima del reato al programma non è un requisito indispensabile per l’effettuazione del programma stesso: esistono infatti programmi con vittime di reati dello stesso tipo di quello per cui si procede o addirittura con la partecipazione della sola comunità, e quindi adatti a reati senza una vittima individuata. L’audizione della persona offesa non può quindi mai essere occasione per un veto assoluto sulla percorribilità del programma, che potrà essere ipotizzata invece a prescindere dal suo consenso.

Sugli aspetti procedimentali, va sottolineato come il contraddittorio con le parti private, i difensori e il pubblico ministero possa avvenire sia in udienza che attraverso una verifica cartolare; ancora, si può sin d’ora ipotizzare che l’invio d’ufficio, possibile quanto problematico rispetto alla tutela della presunzione di innocenza, sarà evenienza remota, soprattutto se si considera che il tempo necessario per lo svolgimento del programma potrà essere oggetto di sospensione del processo nei limitati casi previsti dal comma 4, con il consenso dell’imputato.

Va sottolineato dunque che in ambito processuale non occorre alcun giudizio di merito per l’accesso ad un programma di giustizia riparativa, né occorre, a maggior ragione, una ammissione di colpevolezza ma neppure della sussistenza del “nucleo essenziale del fatto”, termine usuale nella normativa sovranazionale sulla restorative justice. Chiaro che, in concreto, il riconoscimento di un ruolo nella relazione con la vittima sarà poi in concreto requisito di fattibilità del programma, ma altrettanto chiaro che la verifica in questione sarà riservata al mediatore e non invece al giudice.

Il secondo momento delicato rispetto alla dinamica della complementarità tra giustizia riparativa e processo penale è quello del rientro del caso nell’alveo procedimentale.

Meno problematico il caso dell’esito riparativo raggiunto (“qualunque accordo, risultante dal programma di giustizia riparativa, volto alla riparazione dell’offesa e idoneo a rappresentare l’avvenuto riconoscimento reciproco e la possibilità di ricostruire la relazione tra i partecipanti”, ex art. 42 comma 1 lett. e), posto che in tal caso la valutazione della relazione inviata dal mediatore (contenente ex art. 57 la descrizione dello svolgimento del programma e dell’esito raggiunto) potrà essere oggetto di valutazione solo in positivo, attraverso un duplice meccanismo. Nel caso di reati perseguibili a querela di parte, suscettibile di remissione, il raggiungimento dell’esito riparativo comporta l’estinzione del reato per remissione tacita di querela (art. 152 c.p.).

In tutti gli altri casi, l’esito riparativo potrà comportare, una volta eseguiti gli eventuali comportamenti positivi pattuiti nell’accordo, una riduzione di pena ex art. 62 n. 6 c.p., e comunque una valutazione positiva rispetto ai parametri di commisurazione della pena ex art. 133 c.p. (art. 58, peraltro in applicazione del principio generale della rilevanza dei comportamenti successivi al reato già previsto nella norma poc’anzi citata).

L’aspetto più delicato della valutazione dell’esito riguarda invece quello della assoluta irrilevanza del mancato esito riparativo, sia esso dovuto alla impossibilità di avvio del programma, alla sua interruzione, al non raggiungimento di un accordo. In tutti questi casi, a prescindere da chi abbia dato causa alle situazioni contemplate, il mediatore dovrà limitarsi a darne comunicazione sintetica al giudice, che non potrà in alcun modo penalizzare l’imputato per il mancato raggiungimento di un esito riparativo. Questo è principio stabilito in termini assoluti sia per il processo di cognizione che per quello di sorveglianza dall’art. 58 comma 2 e ribadito, rispetto alle misure alternative e ai benefici penitenziari, nel nuovo art. 15-bis OP.

Va però evidenziato come il sistema non possa garantire la assoluta impermeabilità tra i due ambiti e dunque il rischio è che attraverso le dichiarazioni delle parti, eventualmente inserite nella relazione con il loro consenso (purtroppo rilasciabile senza l’assistenza del difensore), ovvero attraverso la loro audizione quali testi o parti, possa entrare nel patrimonio conoscitivo del giudice qualche elemento idoneo ad influenzare negativamente il suo giudizio. In questo senso, è compito di un difensore capace e consapevole quello di vigilare su prassi difformi rispetto allo spirito della normativa, che è netta nell’affermare la non comunicabilità, se non a favore del reo, tra i due sistemi.

Un sistema, in conclusione, ricco di potenzialità e certamente di maggiore impatto profondo su situazioni conflittuali che vanno spesso al di là del fatto di reato; ma anche di rischi e di aspetti cruciali sui quali l’avvocatura deve farsi trovare preparata, qualunque sia la parte assistita. Potranno essere di ausilio linee guida o schemi operativi condivisi, che possano consentire un dialogo tra i soggetti del processo e soggetti della giustizia riparativa nell’ambito di binari e di un linguaggio comuni.

Riferimenti normativi:

Art. 129-bis c.p.p.

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