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Maltrattamenti in famiglia: non è necessaria la sottomissione di un coniuge nei confronti dell’altro

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Reati contro la persona

Reati contro la famiglia

Maltrattamenti in famiglia: non è necessaria la sottomissione di un coniuge nei confronti dell’altro

mercoledì 06 settembre 2023

di Scarcella Alessio Consigliere della Corte Suprema di Cassazione

In tema di reati contro la famiglia, a fronte di condotte abitualmente vessatorie, che siano concretamente idonee a cagionare sofferenze, privazioni ed umiliazioni, il delitto di maltrattamenti contro familiari o conviventi non è escluso per effetto della maggiore capacità di resistenza dimostrata dalla persona offesa, non essendo elemento costitutivo della fattispecie incriminatrice la riduzione della vittima a succube dell’agente (Cassazione penale, Sez. III, sentenza 30 agosto 2023, n. 36170).

Cassazione penale, Sez. III, sentenza 30 agosto 2023, n. 36170

ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi Cass. pen., Sez. VI, 17 aprile 1996
Difformi Cass. pen., Sez. II, 1/12/1965, n. 1719 dep. 1966

La Corte di Cassazione si sofferma, con la sentenza in commento, su un tema ricorrente nelle nostre aule giudiziarie, in particolare afferente alla configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia, in particolare chiarendo se, per la sua configurabilità, sia o meno necessaria la sottomissione morale della vittima. Sul punto i Supremi Giudici (in una fattispecie nella quale l’imputato era stato condannato per il reato di maltrattamenti in famiglia, per il reato di violenza sessuale aggravata e di lesioni personali aggravate in danno dell’allora sua convivente, nonché per la violazione dell’art. 570 c.p., per avere fatto mancare alle figlie minori i mezzi materiali per potersi mantenere in vita), ha disatteso la tesi difensiva, secondo cui il reato non poteva dirsi configurabile per non essere riscontrabile lo stato di soggezione della persona offesa.

Il fatto

La vicenda processuale segue alla sentenza con cui la Corte di appello, per quanto qui rileva, aveva confermato la condanna di un uomo per il reato di maltrattamenti in famiglia, per il reato di violenza sessuale aggravata e di lesioni personali aggravate in danno dell’allora sua convivente, nonché per la violazione dell’art. 570 c.p., per avere fatto mancare alle figlie minori i mezzi materiali per potersi mantenere in vita.

Il ricorso

Contro la sentenza proponeva ricorso per Cassazione la difesa dell’imputato, in particolare sostenendo la mancanza dell’elemento oggettivo del reato di cui all’art. 572 c.p., per non essere riscontrabile lo stato di soggezione della persona offesa.

La decisione della Cassazione

La Cassazione, come anticipato, ha disatteso la tesi difensiva.

In particolare, quanto alla carenza del dato consistente nella mancanza della “sottomissione morale di un coniuge nei confronti dell’altro”, per riprendere la formula usata dal reo, essendo, secondo questo, il clima familiare caratterizzato da una situazione di reciproca tensione, ritenuta dall’imputato, tale da escludere la ricorrenza dell’elemento materiale del reato di maltrattamenti in famiglia, la S.C. ha osservato che trattasi di argomento non solo errato in diritto – posto che la violazione della disposizione contestata non postula tale situazione, come la Cassazione ha, in diverse occasioni, rilevato osservando che in tema di maltrattamenti in famiglia, a fronte di condotte abitualmente vessatorie, che siano concretamente idonee a cagionare sofferenze, privazioni ed umiliazioni, il reato non è escluso per effetto della maggiore capacità di resistenza dimostrata dalla persona offesa, non essendo elemento costitutivo della fattispecie incriminatrice la riduzione della vittima a succube dell’agente (Cass. pen., Sez. VI, 12/1/2023), essendo, anzi, la Suprema Corte giunta sino ad affermare che il reato di maltrattamenti in famiglia è configurabile anche nel caso in cui le condotte violente e vessatorie siano poste in essere dai familiari in danno reciproco gli uni degli altri (Cass. pen., Sez. III, 14/4/2020, n. 12206) – ma anche poco rispondente alla realtà in cui si era manifestato il caso in questione, ove si rifletta sulla circostanza che l’interesse tutelato dalla norma è riferito a tutti i componenti della famiglia convivente, fra i quali erano annoverate nella specie anche le figlie dell’imputato che, data la loro età estremamente giovanile ove non infantile, erano indubbiamente nella condizione di soggezione morale rispetto all’imputato.

La sentenza merita di essere condivisa.

La tesi difensiva, a ben vedere, non trova alcun effettivo conforto nella consolidata giurisprudenza di legittimità, se non in una risalente pronuncia secondo cui per la configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia sarebbe necessario che l’autore abbia posto in essere un complesso di attività rivolte, sia oggettivamente sia nella rappresentazione dello stesso soggetto, all’avvilimento o alla durevole oppressione della vittima (Cass. pen., Sez. II, n. 1719 del 1/12/1965, dep. 1966, B., CED Cass. 100792).

Ed infatti, Il reato di cui all’art. 572 c.p.p. a differenza di quello di “stalking” punito dall’art. 612-bis, c.p., non richiede affatto un’indagine circa le conseguenze determinate sul piano strettamente interiore della persona offesa, indicando quale elemento costitutivo del reato la sola condotta oggettivamente maltrattante, posta in essere in maniera abituale. Rispetto alla struttura del reato, pertanto, non è consentito introdurre un ulteriore elemento costitutivo rappresentato dall’instaurazione di un rapporto di soggezione della persona offesa, proprio perché la norma richiede esclusivamente che siano posti in essere atti idonei a “maltrattare” e, quindi, a provocare una sofferenza morale o psichica che, tuttavia, non deve necessariamente comportare che la vittima risulti soggiogata dall’autore del reato.

È del tutto irrilevante, pertanto, che la persona offesa dimostri una maggiore o minore capacità di resistenza, come pure il mantenimento di un’autonomia decisionale, posto che tali dati attengono essenzialmente ad un profilo strettamente soggettivo che, tuttavia, non inficiano l’idoneità della condotta illecita a determinare uno stato di sofferenza nella persona che la subisce. Del resto, ove si ritenesse che i maltrattamenti integrino il reato di cui all’art. 572 c.p. solo in presenza della soggettiva percezione della loro offensività, si introdurrebbe un parametro confliggente con il principio di tipicità dell’illecito penale e, peraltro, si farebbe dipendere la configurabilità del reato da un elemento estraneo alla condotta dell’agente e ricollegato alla maggiore o minore sensibilità e capacità di resistenza della persona offesa.

A tal proposito basti considerare le più diversificate percezioni che la vittima di maltrattamenti può avere rispetto a tale condotta a seconda di qualità personali o condizionamenti socio-culturali che, ove ritenuti rilevanti, introdurrebbero un grado di assoluto relativismo nell’individuazione del reato, evidentemente incompatibile con la necessaria oggettività della tipizzazione dell’illecito. In buona sostanza, il reato in esame presuppone l’accertamento di condotte oggettivamente lesive della sfera psico-fisica del convivente, a fronte delle quali il grado di sofferenza in concreto indotto non costituisce un elemento costitutivo del reato.

Riferimenti normativi:

Art. 572 c.p.

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