fbpx
Lun Mer Ven 15:30 -19:30

Riforma processo penale: una nuova regola di giudizio per l’archiviazione

Avvocato Penalista e Cassazionista Roma  > News >  Riforma processo penale: una nuova regola di giudizio per l’archiviazione
0 Comments

Procedura penale

Riforma processo penale

Riforma processo penale: una nuova regola di giudizio per l’archiviazione

venerdì 20 gennaio 2023

di Giordano Luigi Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione
Con la riforma del processo penale, il legislatore ha mutato la regola di giudizio per l’archiviazione, passando dalla “sostenibilità dell’accusa in giudizio” alla “ragionevole previsione di condanna”. Tale scelta è stata adottata per rendere più rigoroso il filtro all’esito delle indagini preliminari, evitando che procedimenti male o poco istruiti in fase d’indagine possano essere avviati alla fase processuale, con inutile dispendio di tempo ed energie. In questa ottica, il legislatore avrebbe inteso porre rimedio all’elevata percentuale delle assoluzioni in primo grado, ritenuta una spia di inefficienza del sistema (D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 – G.U. 17 ottobre 2022, n. 243, suppl. ord. n. 38/L).

D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 – G.U. 17 ottobre 2022, n. 243, suppl. ord. n. 38/L

La riforma della regola di giudizio per l’archiviazione

La legge delega n. 134/2021, all’art. 1, comma 9, ha dettato criteri direttivi volti a riformare alcuni profili della disciplina delle indagini preliminari e dell’udienza preliminare. In particolare, alla lett. a) di tale disposizione, è stata prevista la modifica della regola di giudizio per l’archiviazione della notizia di reato, in precedenza fissata nell’art. 125 disp. att. c.p.p., prevedendo che il pubblico ministero chieda l’archiviazione “quando gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non consentono una ragionevole previsione di condanna”.

La stringente formulazione della direttiva contenuta nella legge delega è stata accolta nell’art. 22, comma 1, lett. e), D.Lgs. n. 150/2022 che si è limitato a recepirla puntualmente, approfittando dell’occasione per collocare la regola di giudizio della richiesta di archiviazione nella sua sede naturale, ossia nell’art. 408, comma 1, c.p.p. il cui testo è stato riformulato.

Secondo il nuovo art. 408, comma 1, c.p.p., pertanto, il pubblico ministero deve chiedere l’archiviazione non più “quando gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non sono idonei a sostenere l’accusa in giudizio”, come in precedenza stabilito dall’art. 125 disp. att. c.p.p., ma quando tali elementi “non consentono una ragionevole previsione di condanna”.

Conseguentemente la novella ha provveduto all’abrogazione dell’art. 125 delle disp. att. c.p.p, ove la precedente regola di giudizio dell’archiviazione era stata collocata.

La disciplina precedente

Per cogliere la portata della nuova disposizione e per valutare la sua effettiva capacità di contribuire al recupero di efficienza del processo penale è necessario fare un passo indietro, soffermandosi sulla norma precedente.

L’art. 125 disp. att. c.p.p. riempiva di contenuto il concetto di infondatezza della notizia di reato previsto dall’art. 408, comma 1, c.p.p. come presupposto per la formulazione da parte del pubblico ministero della richiesta di archiviazione. Questa norma, precisando che l’infondatezza doveva ritenersi sussistente allorché gli elementi acquisiti nel corso delle indagini “non sono idonei a sostenere l’accusa in giudizio”, imponeva al pubblico ministero di valutare tali elementi non nella prospettiva dell’esito finale del processo, bensì nella loro attitudine a giustificare il rinvio a giudizio.

La Corte costituzionale, giudicando legittima questa previsione normativa rispetto al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, aveva precisato che essa esigeva di valutare gli elementi raccolti nelle indagini “non nell’ottica del risultato dell’azione, ma in quella della superfluità o no dell’accertamento giudiziale, che è l’autentica prospettiva di un pubblico ministero, il quale, nel sistema, è la parte pubblica incaricata di instaurare il processo” (Corte cost. 15/02/1991, n. 88)

Secondo la Corte costituzionale, in particolare, l’art. 125 disp. att. c.p.p. costituiva la traduzione in chiave accusatoria del principio di non superfluità del processo: affermare che gli elementi acquisiti non sono idonei a sostenere l’accusa equivale a dire che, sulla base di essi, l’accusa è insostenibile e che, quindi, la notizia di reato, è sul piano processuale, infondata.

La successiva elaborazione della giurisprudenza di legittimità, formatasi in particolare in relazione alla regola di giudizio dell’udienza preliminare prevista dall’art. 425, comma 3, c.p.p., di portata speculare rispetto a quella prevista dall’art. 408 c.p.p. e dall’art. 125 disp. att. c.p.p., chiariva che era richiesta al giudice per le indagini preliminari una prognosi che concerneva l’utilità del dibattimento. Al giudizio dibattimentale si doveva procedere solo nei casi in cui, per mezzo delle superiori risorse cognitive attivabili con l’impiego del contraddittorio nella formazione della prova, fosse possibile apportare elementi rilevanti ai fini della decisione di merito (cfr., tra le altre, Cass. pen. sez. I, n. 1490 del 18/11/1998).

La valutazione richiesta ai fini della pronuncia di non luogo a procedere, ai sensi dell’art. 425 c.p.p., infatti, doveva essere parametrata alla ragionevole prognosi dell’inutilità del dibattimento; rispetto a siffatta, necessaria finalizzazione, in presenza di elementi – ancorché contraddittori o insufficienti – suscettibili di valutazione aperta e discrezionale, idonei a fondare soluzioni alternative, è logicamente incongruo escludere lo sviluppo dialettico del contraddittorio e la verifica dibattimentale (cfr. Cass. pen. sez. II, n. 15942 del 07/04/2016; Cass. pen. sez. V, n. 41162 del 19/06/2014; Cass. pen. sez. V, n. 22864 del 15/05/2009; Cass. pen. sez. VI, n. 45275 del 16/11/2001).

Sottesa a questa impostazione vi era la considerazione della provvisorietà del quadro degli elementi acquisiti nelle indagini preliminari e la necessità di ragionare in una prospettiva dinamica, perché occorreva considerare le attività integrative esperibili dopo la richiesta di rinvio a giudizio e, soprattutto, il materiale probatorio che si poteva formare in dibattimento nel contraddittorio delle parti.

L’infondatezza della notizia di reato, pertanto, esprimeva una valutazione esclusivamente processuale che identificava la chiara e inequivoca impossibilità di coltivare in maniera attendibile la prospettazione accusatoria in sede dibattimentale.

Il contenuto della nuova regola di giudizio

L’art. 22, D.Lgs. n. 150/2022, riformulando l’art. 408 c.p.p., ha adottato una nuova regola di giudizio per l’archiviazione, legando tale provvedimento alla ragionevole previsione da parte del pubblico ministero che gli elementi acquisiti nel corso delle indagini preliminari non consentano di approdare alla condanna dell’indagato nella successiva fase processuale.

La ratio della riforma, pertanto, è quella di rendere più rigoroso il filtro all’esito delle indagini preliminari, per evitare che procedimenti male istruiti o poco istruiti in fase d’indagine possano essere avviati alla fase processuale, con inutile dispendio di tempo ed energie e, naturalmente, con danni per le persone sottoposte ad indagini, che sopportano “la pena del processo”. In questa ottica, il legislatore avrebbe inteso porre rimedio all’elevata percentuale delle assoluzioni in primo grado, ritenuta una spia di inefficienza del sistema.

È stato peraltro osservato che l’effettivo raggiungimento dell’effetto deflattivo perseguito dalla riforma sarebbe incerto perché il carattere prognostico della valutazione richiesta al titolare dell’azione penale promette di tradursi in sede applicativa in qualcosa di non molto diverso da quella che già il pubblico ministero era chiamato a svolgere sulla base del testo dell’abrogato art. 125 disp. att. c.p.p.

È stato rilevato, infatti, che è vero che il pubblico ministero non è più chiamato a valutare soltanto l’astratta non superfluità del processo, bensì la sua concreta possibilità di tradursi nella condanna dell’imputato; tuttavia, la concretezza di tale prognosi sfuma nell’aggettivazione “ragionevole” che la definisce e nell’inevitabile insindacabilità dell’eventuale scelta di optare comunque per la richiesta di rinvio a giudizio (L. Pistorelli, Termini di indagini, valutazione su stasi procedimento e archiviazione, in A. Bassi, C. Parodi (a cura di), La riforma del sistema penale, Milano, 2022, 131).

Diversamente, è stato affermato che è stata introdotta una regola di giudizio del tutto nuova con la quale si attribuisce al pubblico ministero, al termine della fase delle indagini preliminari, il potere di effettuare una prognosi sul “ragionevole” esito di un processo ancora da celebrarsi. Questo indeterminato ampliamento dell’ambito applicativo dell’archiviazione autorizza il pubblico ministero ad entrare nella “fattispecie”, riservandogli una facoltà valutativa propria del giudice. La richiesta di archiviazione del pubblico ministero non si fonda più su una mera valutazione di natura processuale – la superfluità del dibattimento durante il quale non si potrebbe comunque formare una prova idonea alla condanna – ma su una valutazione sostanzialmente di merito degli elementi raccolti (E. De Franco, La riforma c.d. “Cartabia” in tema di procedimento penale. Una pericolosa eterogenesi dei fini, in Quest. Giust, 19/12/2022).

La prospettiva che deve ispirare la determinazione del pubblico ministero di richiedere l’archiviazione (e la valutazione successiva sulla richiesta del giudice per le indagini preliminari), in particolare, “rimane prognostica, ma valorizza il momento diagnostico: il PM deve portare l’indagato davanti al giudice non per cercare la prova o corroborare gli elementi acquisiti, bensì solo se ritiene che ragionevolmente, sulla base degli elementi già acquisiti – allo stato degli atti, come nel giudizio abbreviato –, il giudice pronuncerebbe una sentenza di condanna” (G.L. Gatta, Riforma della giustizia penale: contesto, obiettivi e linee di fondo della legge Cartabia, in www.sistemapenale.it 15/10/2021, 9).

Questa seconda impostazione, in verità, lascia adito a perplessità.

Nel caso in cui si ritenesse che l’azione penale, in forza della nuova regola di giudizio, debba essere esercitata solo quando, se si potesse decidere nel merito allo stato degli atti, si condannerebbe, si finirebbe per ripudiare il significato del principio del contraddittorio nella formazione della prova (così R. Aprati, Le nuove indagini preliminari fra obiettivi deflattivi ed esigenze di legalità, in Giust. Insieme, 19/12/2022) ovvero il dibattimento si ridurrebbe solo ad un momento processuale nel quale si verifica se prove raccolte unilateralmente dal pubblico ministero nelle indagini “reggono” alla loro nuova formazione nel contraddittorio delle parti.

Quale sia la prospettiva per la quale si propende, deve rilevarsi che dalla riforma deriva una maggiore responsabilizzazione del pubblico ministero, al quale è richiesta una più penetrante consapevolezza della propria funzione e del peso delle proprie scelte.

L’introduzione di una regola come la “ragionevole previsione di condanna” ai fini dell’esercizio dell’azione penale, inoltre, presuppone una rigorosa attuazione da parte del titolare dell’azione penale del principio di completezza delle indagini, risolvendosi, in caso contrario, in una lesione del principio della obbligatorietà dell’azione penale (Corte cost. n. 88/1991; Corte cost. n. 115/2001).

Il rischio insito nella nuova regola di giudizio è anche quello dell’aumento del numero delle udienze camerali di opposizione alle richieste di archiviazione, tradendo per questa via la ratio deflattiva della riforma.

La nuova regola di giudizio, infine, come è già stato evidenziato, costituisce ovviamente il parametro che il giudice delle indagini preliminari deve applicare nel valutare la richiesta di archiviazione del pubblico ministero. La medesima regola deve essere applicata dal GIP per valutare l’opposizione presentata dalla persona offesa. In questa direzione, deve essere rilevato che la nuova formulazione legislativa della regola di giudizio per l’archiviazione finisce con limitare gli spazi per ordinare l’imputazione coatta di cui all’art. 409, comma 5, c.p.p.

La ragionevole previsione di applicazione di una misura di sicurezza

Riformulando l’art. 408, comma 1, c.p.p., poi, è stato precisato che la richiesta di archiviazione è esclusa anche nel caso in cui sia ragionevole la previsione dell’applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca. La regola di giudizio sull’archiviazione per infondatezza della notizia di reato è stata coordinata con quella di cui all’art. 425, comma 4, c.p.p. che impone la celebrazione del dibattimento in tutti i casi in cui debba essere, per l’appunto, applicata una misura di sicurezza diversa dalla confisca, impedendo la pronunzia all’esito dell’udienza preliminare in tali casi della sentenza di non luogo a procedere.

Analoga esigenza di coordinamento si è rivelata necessaria con l’identica previsione ora contenuta nell’art. 554-ter c.p.p., introdotto dalla riforma a disciplina dell’udienza di comparizione predibattimentale a seguito di citazione diretta, tanto più che, in tal caso, il divieto di pronunziare sentenza di non luogo a procedere è stato espressamente previsto dalla legge delega (art. 1, comma 12, lett. f), L. n. 134/2021).

La riforma della regola di giudizio dell’udienza preliminare

Per completezza va evidenziato che è stata riformata anche la regola di giudizio dell’udienza preliminare, introducendo una regola perfettamente speculare rispetto a quella stabilita per l’archiviazione nei casi di infondatezza della notizia di reato.

L’art. 1, comma 9, lett. m), della legge delega n. 134/2021, infatti, prevedeva la modifica della regola di giudizio dell’udienza preliminare di cui all’art. 425, comma 3, c.p.p. nel senso di stabilire che il giudice pronunci sentenza di non luogo a procedere “quando gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna”.

La stringente formulazione della direttiva contenuta nella legge delega è stata accolta nell’art. 23, comma 1, lett. l), del D.Lgs. n. 150/2022, che ha riformulato l’art. 425, comma 3, c.p.p., stabilendo che il giudice debba pronunciare sentenza di non luogo a procedere non nei casi in cui “gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio”, ma quando tali elementi “non consentono una ragionevole previsione di condanna”.

È stato introdotto un filtro definito “a maglie strette” rispetto alla regola previgente, che presuppone, anche in questo caso, il solo rilievo degli atti acquisiti nelle indagini e non di quelli che è prevedibile potrebbero essere formati nel dibattimento (F. D’Arcangelo, L’udienza preliminare, in A. Bassi, C. Parodi (a cura di), La riforma del sistema penale, Milano, 2022, 148).

Condividi

Invia con WhatsApp